Finalmente in Tv si parla di argomenti storici controversi e terribili come quelli di Piazza Fontana e del delitto Calabresi, ancora ‘caldissimi’ a quarant’anni e passa di distanza. Purtroppo la prime due puntate della serie peccano di superficialità e di una ricostruzione un po’ romanzata.
Fanno ancora discutere il caso del commissario Luigi Calabresi, la strage di piazza Fontana, gli anni della tensione. E fa discutere il primo episodio della trilogia “Gli anni spezzati - Il commissario” dedicata appunto a Luigi Calabresi.
È indubbio che quella parte di storia italiana sia ancora una ferita aperta, nella quale si continua a dibattere anche su una contrapposizione tra verità giudiziaria (peraltro mai accertata veramente) e verità storica. A “Il commissario” di RaiUno con le due serate di martedì e di ieri sera, va riconosciuto un merito. Quello di avere portato sul piccolo schermo della Tv generalista un argomento difficile, dibattuto e foriero di dibattiti e polemiche da decenni, come quello della strage di Piazza Fontana e del caso di Pinelli, con le sue mille sfaccettature inquietanti (il ruolo dei servizi segreti), a pochi anni di distanza da “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana (produzione Cattleya Rai Cinema). Purtroppo mettendo a confronto le due versioni, spicca per diverse superficialità quella televisiva, mentre il film, con una accurata sceneggiatura di Rulli e Petraglia, aveva ricostruito molto bene l'epoca (in calce ripubblichiamo la nostra recensione del 2012).
A 'Il Commissario' va anche riconosciuto il fatto, rispetto al film di Marco Tullio Giordana, di avere ben evidenziato la campagna di stampa del quotidinano 'Lotta Continua' (ma c'erano anche gli editoriali duri di altri giornali in un clima di odio e radicalizzazione assoluta delle posizioni), allora diretto da Adriano Sofri, contro il commissario Calabresi con toni feroci, considerato responsabile della morte di Pinelli da parte della sinistra extraparlamentare (e non solo). Ricordiamo che c'è stato poi il proscioglimento di Calabresi (già assassinato) e degli altri coimputati da parte del giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio con la sentenza del 27 ottobre 1975, perché “il fatto non sussiste”.
Sull'episodio la fiction (qui come il film) preferisce non prendere posizione (e ne capiamo le ragioni, essendo materia ancora non chiara, neppure questa, dopo 45 anni), mostrando semplicemente la caduta di Pinelli (non si sa provocata da cosa) e assolvendo naturalmente Calabresi, che non era nella stanza in quei momenti e fu anzi il 'capro espiatorio' quasi unico della situazione.
L'isolamento dello stesso Calabresi (interpretato con impegno, va detto, da Emilio Solfrizzi) era effettivo all'interno della Questura milanese. L'intera fiction si basa però su una sceneggiatura debole; una debolezza forse proprio nata (se questa era realmente l'idea) dall'intenzione di semplificare (troppo) e divulgare al grande pubblico una delle vicende più difficili e complesse della storia italiana, sulla quale è arduo anche prendere delle posizioni nette.
C'è poi un neo importante: aver rintrodotto in una storia così spinosa e 'calda' degli elementi che sembrano di fantasia e che virano in modo davvero incongruo sul lato emotivo e di più facile presa (nella presunzione di certi sceneggiatori e registi) sul pubblico televisivo. Ci riferiamo a tutta la storia del poliziotto giovane Boccia, amico di Calabresi al punto che alla fine ne 'prende il testimone' e soprattutto alla sua inutile (come episodio di sceneggiatura) storia d'amore con la ragazza di estrema sinistra che va a Londra con la sua bambina, mentre lui, pur innamorato, sceglie il dovere della divisa e resta a Milano (tutte cose davvero sconclusionate e prive di senso dal punto di vista storico).
In più sono stati usati anche filmati d'epoca, cosa affatto fondamentale in una ricostruzione un po' romanzata.
Gli sceneggiatori, per il film, si sono ispirati al lavoro del giornalista e storico Luciano Garibaldi, autore di “Gli anni spezzati. Il commissario” e “Gli anni spezzati. Il giudice. Nella prigione delle BR”, edizioni Ares (quest'ultimo scritto con Mario Sossi). Ma rispetto a “Il Commissario” libro creano appunto il personaggio di fantasia della recluta Claudio Boccia, dalla quale nasce e si dipana il racconto della fiction. E non ci sembrava davvero il caso.
Il racconto non riesce ad andare oltre la pura narrazione storica dei fatti e non riesce ad approfondire più di tanto la psicologia dei personaggi e i loro sentimenti, con la solitudine di Calabresi e, negli ultimi mesi, la paura, l'isolamento, ma anche le divisioni tra i membri delle forze dell'ordine, il rapporto con Pinelli e la contrapposizione di quest'ultimo con le posizioni di Valpreda, il rapporto di Calabresi con la moglie e la difficoltà di gestire la paura per la campagna d'odio costruita su di lui, che lo porterà alla morte. C'è tutto, in realtà, ma abbozzato e con una scrittura non riesce ad andare oltre la superficie. E gli stessi giornalisti che seguono il caso (Pansa, Cederna) sembrano più macchiette che altro, semplici figure di contorno più che personaggi veri e propri.
Infine - e ci spiace davvero rilevarlo - alcune scene erano davvero improponibili per chi voglia fare fiction a certi livelli. Una scena drammatica, come quella dei manifestanti che gridavano 'assassino!' all'obitorio a un Calabresi che era da poco stato ucciso, è stata resa ridicola da un uso delle comparse (malissimo istruite, evidentemente) davvero 'alla buona', che rendeva quasi spassosa una circostanza di una tragicità rara.
A “Gli anni spezzati. Il Commissario” seguiranno “ll Giudice” sulla figura di Mario Sossi e “l'Ingegnere”, su Giorgio Venuti.
La trilogia “Gli anni spezzati” è prodotto da Albatross Entertainment di Alessandro Jacchia e Maurizio Momi; sceneggiatura di Graziano Diana, Stefano Marcocci, Domenico Tommassetti; direttore della fotografia Claudio Sabatini, regia di Graziano Diana.
Nel cast Emilio Solfrizzi, Alessandro Preziosi, Luisa Ranieri, Stefania Rocca, Giulia Michelini, Ennio Fantastichini, Enzo Decaro, Anna Safroncik, Alessio Vassallo, Christiane Filangieri e molti altri.
Gli ascolti delle due serate di RaiUno sono stati abbastanza buoni, oscillando fra il 17 e il 18% e battendo anche il Papaleo di 'Basilicata coast to coast' e Ballaro'.
In calce ripubblichiamo, come annunciato, la nostra recensione di 'Romanzo di una strage'.
Recensione: 'Romanzo di una strage' di Mauro Roffi
(aprile 2012)
«'Romanzo di una strage' ha molti meriti. Prima di tutto il titolo, che è onesto. Onesto perché la pretesa non è quella di ricostruire con la cura e lo scrupolo di uno storico le vicende di piazza Fontana e dintorni, anche se anche questo sarebbe già di per sé un merito: quei fatti sono infatti il punto di svolta e il primo 'buco nero' per l'Italia, che da quel momento in poi vivrà una fase tragica e lunghissima della propria storia, alle prese con bombe, stragi, terrorismo, attentati, azzoppamenti e omicidi, una scia infinita di sangue e di terrore che ha fatto sprofondare il Paese, che non è peraltro riuscito che in pochi casi a chiarire i fatti e le responsabilità degli eventi.
Ecco dunque un secondo merito: affrontare proprio quel momento della storia nazionale, una vicenda convulsa e complicatissima, che mille indagini, processi e articoli giornalistici non hanno chiarito. Ma bisognava riparlarne, proprio perché da lì è partito tutto e ripensare a quei fatti è doveroso per chi voglia sapere anche oggi in che Paese vive, anche per i giovani, dunque. Ma - si diceva - l'intento - ed è un merito in rapporto appunto all'onestà del titolo e a quel che ci si proponeva - non è ricostruire da storici le vicende di piazza Fontana ma delinearne i contorni, facendo emergere due-tre personaggi-simbolo, quasi le vittime sacrificali di un mondo, di un Paese e di un sistema impazziti, dove l'odio stava prendendo il sopravvento su tutto e la vita umana poteva allora essere sacrificata a 'fini superiori' o a presunti nobili ideali.
Romanzo di una strage, dunque, davvero, anche se la ricostruzione degli ambienti, dei luoghi e dei fatti è attenta e scrupolosa, se sia gli studenti che, sul fronte opposto, i poliziotti sono credibili e chi ricorda quei momenti e quelle situazioni, che magari ha vissuto direttamente, si ritroverà davvero, non escludendo persino un filo di nostalgia. Bene hanno lavorato sia il regista Giordana che gli sceneggiatori Rulli e Petraglia, ben sorretti dal produttore Tozzi, con Cattleya e il sostegno di Rai Cinema e 01 per la distribuzione. Dalla storia corale, su cui appunto non si insiste troppo, anche se le storie vengono raccontate tutte (dal tassista Rolandi a Freda e Ventura, da Giannettini ai servizi segreti deviati, fino persino all'infiltrato Merlino e a Feltrinelli), emergono i personaggi: non Valpreda, un po' a sorpresa (viene raffigurato solo in senso negativo, come tendente alla violenza e quasi odiato da Pinelli, e questo è forse un limite del film), ma tre figure precise: Pinelli, appunto, Calabresi e, sul piano politico, un Moro ministro degli Esteri che sembra a sua volta una vittima designata degli eventi (ci si riferisce evidentemente al suo successivo rapimento e uccisione), alle prese con ministri ambigui e tendenti al golpe, con un Saragat che voleva sospendere la Costituzione e con un Rumor in preda agli eventi.
Ma se il riferimento a Moro è forse un po' forzato, le vicende personali di Pinelli e Calabresi sono il centro vero del film. Pinelli ci fa un figurone: buono, generoso, idealista e onesto, si trova involontariamente al centro di una vicenda troppo grande per lui, che finisce ovviamente in tragedia. E su quel 'suicidio' nel cortile della Questura di Milano il film si diffonde in particolari, senza voler accusare nessuno di preciso, peraltro, perché in effetti cosa sia successo davvero non si è mai capito. Di certo qui viene assolto Calabresi, che pure fu al centro di una terribile vicenda di odio e di vendetta, anche stavolta considerata (nel film) troppo grande per lui: Calabresi non era nella stanza quando Pinelli morì e poi, immerso in un ambiente sordido dove c'erano troppi silenzi e troppe manovre di depistaggio, fa quasi una sua indagine, che culmina con la scoperta di misteriosi depositi di armi nel Triveneto, su cui però era d'obbligo mantenere il silenzio. Alla fine Calabresi viene ucciso e il film si chiude su questa seconda vittima designata.
Ma prima a Calabresi stesso viene fatta enunciare la famosa tesi delle 'due bombe' a piazza Fontana, che tanto ha fatto discutere in questi giorni. Qui l'impressione che si ha è che un po' a tutti sia sfuggita la mano; gli sceneggiatori e il regista erano alle prese con un libro di un autore-giornalista sconosciuto da cui hanno preso spunto per il film ma che al contempo volevano contestare, anche perché confonde le acque su tesi ormai quasi 'storiche': le manovre dei servizi e della Nato per forzare la tesissima situazione politica in Italia dopo l'autunno caldo del '69, anche a costo di stragi, la forzata attribuzione delle colpe per le stragi stesse alla sinistra anarchica (e così, per estensione, alla sinistra tutta), gli ambienti di estrema destra esecutori materiali dei crimini.
Su tutto questo il libro aveva fatto confusione e Giordana cerca allora di confutare le sue tesi, finendo però per avallarne una che sembra a sua volta romanzesca (la doppia bomba, appunto). Ma forse la pecca vera è volersi ispirare a un libro per contestarlo, un'operazione ardita già come enunciazione.
Resta la bravura di un Favino quasi commovente nei panni di Pinelli e l'impegno di Mastandrea nell'impersonare Calabresi, restano una bella sceneggiatura e una scelta stilistica che alla fine convince, pur non trattandosi, come detto, di una rievocazione storica a tutto tondo. Quello era un altro film, probabilmente, questo è un romanzo (filmato) di una strage, anche se questa era una sfida molto difficile già in partenza. Ma alla fine la sfida sembra in buona misura vinta».