Diritto alla privacy o lasciapassare alla neo-censura? La decisione della Corte di Giustizia dell’Ue del 13 maggio ha sorpreso molti, provocando giuste polemiche e suscitando interrogativi inquietanti.
'Privacy', 'diritto all'oblio' o 'diritto all'informazione', sempre e comunque? Questi temi, ciclicamente riproposti rispetto al mondo della rete, che in qualche modo sembra aver scompaginato le carte di decenni di storia e giurisprudenza, sono riemersi sullo scenario a seguito dello 'scandalo globale' del Datagate e delle rivelazioni di Edward Snowden. Soltanto pochi giorni fa,¬ il 13 maggio 2014, per la precisione, è giunta la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con la quale viene stabilito ¬ riconoscendo come sacrosanto il 'diritto all'oblio',¬ che il motore di ricerca, nella fattispecie Google, dovrà rimuovere i contenuti presenti in rete su richiesta di privati, ed è responsabile dei dati personali che ha trattato, anche quando questi appaiono su pagine web pubblicate da terzi. Per alcuni aspetti, si tratta di una sentenza veramente 'rivoluzionaria'.
In estrema sintesi, la Corte ha stabilito che i cittadini europei hanno il diritto di chiedere ai motori di ricerca di eliminare dalle loro pagine i link che rimandano verso “contenuti non più rilevanti” che li riguardano. Questa sentenza rende Google e gli altri motori di ricerca sostanzialmente responsabili per la visibilità dei contenuti che circolano online, anche se li hanno solo aggregati per inserirli nei loro indici e nelle loro pagine dei risultati.
La sentenza della Corte non può essere appellata e sancisce un principio che potrà / dovrà essere ripreso dai tribunali dei singoli Stati membri.
Veniamo ai fatti. La Corte europea è stata chiamata a pronunciarsi su un caso spagnolo, quello dell'avvocato Mario Costeja Gonzalez: nel 2009, Gonzalez apprese, cercando in rete, che il suo nome compariva in un quotidiano nazionale, in riferimento alla messa all'asta del suo appartamento determinato da difficoltà economiche, poi superate. Gonzalez chiese quindi alla testata giornalistica che aveva pubblicato la notizia di rimuovere il contenuto, lesivo della privacy e peraltro non più attuale (la notizia risaliva a... 16 anni prima). Di fronte al rifiuto del quotidiano, l'avvocato si rivolse al Garante spagnolo per la protezione dei dati personali, che impose al colosso del 'search' di rimuovere il link alla pagina, ovvero di 'de-indicizzare' la notizia.
Google fece ricorso, riscontrando il parare favorevole dell'Avvocato Generale.
A distanza di circa un anno, la sentenza della Corte ha di fatto ribaltato tale parere. La decisione ¬- in sintesi ¬- stabilisce per l'Europa a 28 che qualora un cittadino ritenga violata la propria privacy, può presentare richiesta di rimozione direttamente al motore di ricerca, il quale, dimostrandosi inadempiente, sarà costretto al pagamento di una multa. Se, da una parte, la questione apre un quadro di difficoltà logistiche (Google dovrà dotarsi di una task force di 'esperti in rimozione'?), ciò che maggiormente preoccupa è il confine sempre più labile tra 'diritto alla privacy' e rischio di censura.
Spieghiamo meglio: i motori di ricerca, se riceveranno da singoli cittadini la richiesta di rimuovere i link verso particolari contenuti ritenuti non più rilevanti, saranno costretti a mettere in atto la rimozione del link, anche se i siti che materialmente ospitano quei contenuti potranno continuare a mantenerli online. Semplificando, la Corte ha stabilito che in particolari circostanze alcuni contenuti non potranno essere più linkati sui motori di ricerca, anche se sono legittimati a esistere: sembra paradossale, ma la sentenza ha una sua logica interna.
Il rischio di una quantità enorme di azioni da parte dei singoli cittadini può determinare una valanga nei confronti di Google & Co. (senza dimenticare che il colosso di Mountain View detiene una quota del 90% del mercato mondiale del 'search').
La stampa d'oltreoceano ha già assunto toni molto aspri. Il 'Wall Street Journal' ha paragonato addirittura la sentenza alla minaccia dei regimi autoritari che vogliono controllare il web, gridando alla censura, e sostenendo: “Preparatevi ad un internet con le frontiere”.
Non occorre qui precisare che le web company statunitensi si siano da subito schierate in netta contrapposizione rispetto alla decisione della Corte. Un portavoce di Google ha definito la sentenza “deludente”, aggiungendo che sarà necessario del tempo per comprendere la portata reale, e le effettive implicazioni, di questa scelta: la società si difende sostenendo che rimuovere dei link dalle sue pagine equivarrebbe a (auto?!)censurare dei contenuti provenienti da altri siti...
Dall'altra parte, la Commissaria Ue per la Giustizia Viviane Reding ha invece postato su Facebook un netto soddisfatto commento: “Una chiara vittoria per la protezione dei dati personali”.
Piace qui ricordare che già nel 2012 la Commissione Europea aveva pubblicato delle linee-guida per l'adozione di una legge per la tutela del “diritto all'oblio”, all'interno di un piano di ristrutturazione delle regole sulla privacy nell'Unione. Ma già allora i 'big' di internet si erano dichiarati preoccupati per una legge dai contorni chiaramente poco netti, che avrebbe potuto mettere a rischio la libertà d'espressione.
Appare evidente che il problema esiste. E va risolto. Come sintetizza efficacemente Stefano Rodotà nel suo recente saggio 'Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli' (Laterza, 2014): “Emerge così, nel nuovissimo mondo, un tema antico. Dalla cancellazione all'imposizione. Ieri la damnatio memoriae, oggi l'obbligo del ricordo. Cosa diviene la vita nel tempo in cui Google ricorda sempre? L'implacabile memoria collettiva di internet, dove l'accumularsi di ogni nostra traccia ci rende prigionieri di un passato destinato a non passare mai, sfida la costruzione della personalità libera dal peso d'ogni ricordo, impone un continuo scrutinio sociale da parte di un'infinita schiera di persone che possono facilmente conoscere le informazioni sugli altri. Nasce da qui il bisogno di difese adeguate, che prende la forma della richiesta di diritti nuovi: il diritto all'oblio, il diritto di non sapere, di non essere 'tracciato', di 'rendere silenzioso' il chip grazie al quale si raccolgono i dati personali”.
Commentando la sentenza del 13 maggio, lo stesso Rodotà ha sostenuto: “Il problema generale è riequilibrare il potere di sovranità sulla rete a livello planetario, dove le grandi web company sono già “padrone del mondo”. E questo in una logica democratica non è accettabile, perché l'autoregolamentazione invocata dal mercato non ha dato i risultati attesi”.
Il diritto alla protezione dei propri dati, all'oblio, sono certamente diritti fondamentali che devono essere tutelati nel migliore dei modi, anche in questa nuova 'estensione del sé', ma occorre fare attenzione affinché questa 'apparente' tutela non metta a repentaglio un diritto forse ancora più importante: la libertà di espressione.