È stata inaugurata ieri “Phantoms”, la prima mostra personale in Italia di Ben Rivers, ospite alla Triennale sotto la Direzione Artistica di Edoardo Bonaspetti e la supervisione di Lucia Aspesi, curatrice della mostra. L’artista londinese ha voluto in questo caso annullare i confini fra cinema e documentario, fondendo memoria e finzione.
Lucia Aspesi ha spiegato che il lavoro di Ben Rivers si è spesso confrontato con l’idea di tempo e lo stesso 16mm, con cui realizza i suoi film, può essere considerato un mezzo obsoleto. “Come dei monumenti effimeri, le sue opere spesso descrivono individui alieni provenienti da un tempo indefinito, di cui però ci viene descritta con minuziosa attenzione la loro quotidianità, quasi a supporre che proprio nella loro banalità si nasconda qualcosa di inaspettato. Ciò che è affascinante del suo lavoro - ha sottolineato ancora la curatrice - è la forza e la facilità con cui riesce a sperimentare e attraversare la distinzione tra i diversi generi cinematografici, mostrando di fatto una complessa conoscenza della storia del cinema, i suoi poteri illusori, i suoi processi chimici e quella fascinazione per la quale ogni volta che ci si trova davanti a uno schermo e le luci intorno a noi si spengono, siamo pronti a proiettarci verso una nuova realtà”.
“Phantoms”, come suggerisce il titolo stesso, parla di tracce che si relazionano con quello che più comunemente è la storia. Lo stesso Rivers, esile, sorridente ma poco incline al racconto verbale e più propenso ad affidarsi alle immagini - come lui stesso ha ammesso - ci ha detto che si tratta di ritratti in cui ognuno può scorgere particolari diversi, perché diversi sono sempre i punti di vista.
Come già scritto, Ben Rivers lavora da sempre in bilico tra cinema e video-art: le sue pellicole, girate in 16mm, hanno il fascino di ciò che pur sembrando vecchio ha la capacità di rendere le immagini ancora più vere con un gioco di luci, ombre colori e un bianco nero ingiallito da film degli anni ’60.
Per quanto riguarda la realizzazione dell’esposizione, è stato volutamente scelto l’Impluvium, uno degli spazi più caratteristici della Triennale di Milano, semplice ma suggestivo: “Le sue dimensioni e la sua regolarità - ha spiegato la Aspesi - sono stati lo spunto per la concezione del display della mostra: non abbiamo voluto occupare uno spazio, ma interagire con esso. I tre elementi essenziali che compongono la mostra sono le luci, i proiettori e l’audio: Phantoms è all’interno di uno spazio unico e tutti i film sono girati in ambienti chiusi per ricreare una sorta di una collezione museale fatta da oggetti e immagini”.
Per la Triennale l’artista ha progettato un ambiente che dà forma a una riflessione sulla memoria: i tre schermi sono collocati in modo da creare un percorso circolare che intreccia tempi e storie differenti.
In quest’esposizione anche la porta di entrata è importante, tanto che proprio sulla soglia viene proiettato il primo breve filmato, “The Shape of Things”, opera dello scorso anno dedicata a due pezzi archeologici dell'Harvard Art Museum, una scultura bizantina di un ermafrodita e una brocca antropomorfa cinese, mentre il poeta americano William Bronk legge la sua poesia «At Tikal».
Le parole e le immagini inducono a interrogarsi sulla propria identità fra continua creazione, distruzione e rinnovamento.
Il vissuto di un uomo e i suoi ricordi sono invece il punto di partenza di “Phantoms of a Libertine” (2012), il film utilizza elementi visivi e testuali estrapolati da un album di viaggi per creare una biografia composta di indizi misteriosi e onirici: è l'omaggio a un caro amico mancato anni fa. Rivers entra con la telecamera tra i suoi ricordi, in particolare tra i diari di viaggio e vecchie cartoline scolorite.
A fine percorso, sullo schermo più grande è proiettato “Things” (2014), in cui sono descritti gli elementi che compongono la casa dell’artista stesso ripresa in diverse stagioni: frammenti di libri, di immagini, di oggetti e di suoni, raccolti nel corso degli anni, danno forma a un viaggio nella fantasia e nella memoria che da individuale si fa collettiva.
La foto di questo articolo è di Gianluca Di Ioia.