In Italia la produzione indipendente nel campo dell’intrattenimento Tv è un settore vivace ma con un grande potenziale inesploso. I dati di una ricerca condotta lo scorso anno dal Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell’Università Cattolica per conto dell’Associazione dei Produttori Televisivi indipendenti
Una ‘fotografia’ del mondo della produzione indipendente di intrattenimento Tv in Italia è stata scattata dal Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi, diretto da Aldo Grasso, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Ce.R.T.A,) per conto dell’APT, l’Associazione dei Produttori Televisivi indipendenti del nostro Paese. (Lo studio si intitola “Il valore della produzione. L’intrattenimento come risorsa economica e culturale” ed è stato presentato nel 2016, ndr). I dati ricavati certificano come la produzione indipendente di intrattenimento in Italia abbia registrato in questi anni una crescita positiva. Il settore rappresenta oggi una realtà importante che contribuisce a stimolare la creatività e a creare posti lavoro. Tuttavia, nonostante gli sforzi fatti, il peso della produzione indipendente sul totale complessivo del comparto televisivo, in termini di ricavi, è ancora molto limitato, soprattutto se di fa una comparazione con altri mercati più avanzati: l’intrattenimento indipendente pesa infatti soltanto per un 3,9% del comparto Tv (0,3 miliardi di euro). Questo valore percentuale è molto inferiore rispetto a quello, per esempio, del Regno Unito (8,8% del comparto, ovvero 1,5 miliardi di euro). E - sostiene il Ce.R.T.A. - se, nel giro di alcuni anni, si arrivasse in Italia alla stessa percentuale britannica sul mercato complessivo, il mercato nazionale vedrebbe raddoppiare ricavi e occupazione.
Il modello britannico e la Francia
Il Regno Unito costituisce dunque un modello di riferimento, anche se la sua realtà, rispetto alla nostra, è ancora troppo lontana. Al di là dell’ampiezza complessiva, quello britannico è infatti un mercato che continua a mostrare segni di grande dinamicità, che è però anche frutto di precise politiche e di “buone pratiche”. Il Regno Unito, infatti, è leader globale nell’esportazione di format di intrattenimento, con 122 adattamenti complessivi in tutto il mondo solo nel 2015. Questo dato è il risultato anche di un progressivo consolidamento del mercato interno della produzione indipendente, che negli ultimi anni è andato nella duplice direzione di evitare la dispersione e la frammentazione e, al contempo, di rafforzare la centralità della BBC (e del complesso delle reti in chiaro) nello stimolare la creatività interna. Tra il 2001 e il 2014, il numero complessivo delle case di produzione è fra l’altro sceso da 500 a 259, stabilizzando un sistema che si compone di poche grandi realtà e di una presenza diffusa di società piccole e medie, la cui “diversità” è valorizzata dalle politiche pubbliche. Nel corso dell’ultimo decennio, il ruolo del servizio pubblico è stato quello di fungere da volano per la produzione indipendente: la BBC svolge infatti un ruolo di garanzia e stabilizzazione del sistema, con un ricorso alla produzione esterna che tra il 2004 e il 2014 è passato dal 49% al 59% della programmazione complessiva. Nel 2014, 250 società hanno avuto almeno un programma in onda. Anche in Francia si punta sull’esportazione e sulle factory creative. Quello transalpino è un mercato, per certi versi, più “vicino” a quello italiano ma ha fatto registrare negli ultimi anni una crescita dell’interesse (pubblico e privato) verso il mercato dei format e dell’intrattenimento; nel 2015 sono stati 11 gli adattamenti complessivi esportati all’estero e, inoltre, tra il 2008 e il 2015 il valore dell’esportazione per il settore è passato da 13 a 25,4 milioni di euro, con un particolare incremento nell’ambito dei game show. La produzione indipendente francese tende dunque a espandersi, anche se risente ancora di una certa frammentazione, con un numero molto elevato di case di produzione che realizzano poche ore di programmazione.
L’intrattenimento: un genere chiave
Tornando al nostro Paese, nel 2015, in Italia, sono stati realizzati 290 programmi di intrattenimento, per un totale di 13.850 ore di programmazione, con una particolare concentrazione sulla fascia pregiata del prime time. La produzione indipendente pesa però ancora però troppo poco, soprattutto se valutata in termini di ore di prodotto originale: solo 4.344 ore di intrattenimento (il 31% del totale) sono realizzate da produttori indipendenti (contro un 69% di produzione interna). I contenuti realizzati da società esterne sono maggiori per varietà e ricchezza di titoli, ma meno estesi nell’ambito del palinsesto. Per quanto riguarda i generi dell’intrattenimento, emergono sugli altri il factual e l’infotainment (che complessivamente coprono il 54% dell’offerta complessiva). I due generi costituiscono anche l’esempio di due strategie tra loro opposte. Per il factual, la cui realizzazione si appoggia più frequentemente sulla produzione indipendente, si registra un’ampia varietà e un maggior numero di titoli in circolazione; nel campo dell’infotainment, invece, si punta decisamente su prodotti più consolidati (con numerose stagioni alle spalle) e, in definitiva, su programmi di maggiore durata in termini di ore di trasmissione. La produzione indipendente si concentra soprattutto su tre generi principali, abitualmente collocati in fasce importanti del palinsesto come il preserale, l’access e il prime time. Si tratta dei game, dei reality e dei talent. Insieme al factual, sono questi i generi che costituiscono il ‘terreno più battuto’ dalle case di produzione indipendenti, visto che i programmi qui sono quasi interamente creati e sviluppati da società esterne, a volte in coproduzione con i broadcaster (questo vale per la totalità dei reality e dei talent e per il 96% delle ore di messa in onda dei game). Circa un quarto dei programmi di intrattenimento - e un quinto delle ore di programmazione dedicate al genere - è costituito poi da format, in gran parte di provenienza internazionale: solo il 5% dei titoli e delle ore in onda nel 2015, infatti, è di format originali italiani. Una presenza ancora decisamente limitata: l’Italia importa molti programmi e ne esporta pochissimi.
Le case di produzione in Italia
La mappatura completa delle case di produzione italiane impegnate nell’intrattenimento televisivo mette in luce un modello occupazionale ben preciso, con strutture spesso snelle, caratterizzate da un numero ancora mediamente basso di impiegati stabili, ma con un forte capacità espansiva attraverso il ricorso a forme di collaborazione più flessibili, soprattutto relative a specifiche grandi produzioni e a professionalità creative e tecniche in grado di operare contemporaneamente su fronti e progetti diversi. È un sistema che rischia di generare precarietà. Su un totale di occupati nel comparto della produzione e post-produzione televisiva che raggiunge nel 2014 le 8.500 unità, si può stimare che l’area dell’intrattenimento attivi ogni anno 3.800 contratti. Il numero di dipendenti strutturati nelle case di produzione attive nel settore dell’intrattenimento è però più limitato e stimabile in circa 614 unità. Lo scenario delle case di produzione italiane si presenta poi molto vivo e variegato sotto il profilo delle specializzazioni, come sotto quello della tipologia organizzativa e dell’organizzazione aziendale. Da un’analisi del quadro contemporaneo emergono quattro modelli prevalenti: Mega indies (realtà di grandi dimensioni, spesso inserite in gruppi internazionali, con un accesso ampio ed esteso a cataloghi di format, ed estremamente variegate dal punto di vista dei generi e della destinazione finale dei loro prodotti, indirizzati a diversi tipi di broadcaster), Italian Majors (società orientate soprattutto a spettacolo e intrattenimento mainstream, centrate sulla collaborazione con talent nazionali e spesso caratterizzate da rapporti di maggiore esclusività con alcuni broadcaster, nella gran parte dei casi generalisti), Atelier Creativi (realtà di piccole dimensioni, artigianali, con una specializzazione forte su determinati generi e modalità di racconto), Branded Storytellers (agenzie capaci di lavorare anche su fronti non strettamente televisivi, come l’advertising, il settore digital, il branded content e così via).
Un settore da far crescere
Quattro punti aiutano a riassumere le principali questioni ancora aperte, da risolvere per permettere al settore della produzione indipendente di crescere maggiormente e stabilizzarsi:
- l’esportazione è al momento penalizzata da alcuni limiti: l’assenza di sinergia tra produttori e broadcaster in termini di distribuzione internazionale; c’è poi una effettiva scarsità di professionalità specifiche che sappiano presidiare i mercati internazionali. Esistono però grandi opportunità di crescita grazie al trend ormai pienamente assestato di globalizzazione dei format d’intrattenimento;
- la questione dei diritti è particolarmente sentita, nei termini di una paternità spesso contesa tra produttori e broadcaster. Le differenze nella ripartizione risentono troppo, in modo arbitrario, della specificità (e della forza) dei vari soggetti in gioco;
- le procedure di commissioning sono ancora troppo legate ad aspetti che sfuggono a criteri stabili, come la fiducia in rapporti informali e personali. In particolare, le realtà più piccole soffrono una continua variabilità negli interlocutori e nelle professionalità sul lato dei broadcaster;
- le modalità produttive e realizzative dei programmi evidenziano una forte distinzione tra la co-produzione con i broadcaster e la consegna “chiavi in mano” del contenuto finito. Nel primo caso, permane una forte asimmetria tra le reti e i produttori, con questi ultimi che devono spesso adeguarsi alle necessità e agli stili produttivi dei broadcaster. La consegna “chiavi in mano”, invece, al momento è sbilanciata su alcuni generi, mentre sarebbe auspicabile per le case di produzione avere un maggior controllo sulla realizzazione del contenuto, funzionale soprattutto al modello degli atelier creativi.