La strategia mediatica dell’Isis

Vediamo una parte dell’articolo di Roberto Saviano apparso su

‘Repubblica’ del 2 ottobre scorso che illustra in modo puntualissimo e ‘illuminante’ cosa ci sia dietro i (tristemente) famosi video di propaganda dell’Isis, purtroppo efficaci perché frutto di una precisa strategia mediatica:

 

“Zyad è stato un cameraman dell'Isis. Originario di Raqqa, 28 anni, ha scelto le milizie di Al Baghdadi perché le considerava più determinate contro il regime di Assad che lui stesso aveva provato a destituire partecipando alla rivolta pacifica. Deluso dal fallimento di quell'esperienza e dall'indifferenza europea, Zyad voleva realizzare il suo sogno: fotografare, filmare, fare documentari. E l'Isis gli ha permesso di realizzare il suo sogno.
Contatto Zyad attraverso Alexis Marant, talentuoso documentarista parigino. E gli chiedo qual è il motivo che l'ha portato a diventare un miliziano dell'Isis. “Mi sono unito al reparto media dell'Isis perché mi piacciono i mezzi di comunicazione e mi piaceva il modo in cui si erano organizzati”.

La sua adesione al jihadismo è artistica: vuole studiare e manipolare la comunicazione, utilizzare strumenti tecnologici efficienti e costosi. Zyad conosce bene il media center Isis di Raqqa: “Un grande centro di produzione internazionale, dotato di strumentazioni all'avanguardia e gestito da professionisti del settore”.

Lì vengono registrati i video, prodotti i film, mandate in onda le trasmissioni radiofoniche. Lì arrivano le immagini girate in battaglia o durante le esecuzioni: qualcuno si occupa di visionare il materiale, scegliere le immagini, montarle. Lavori da professionisti…
Al centro media Isis di Raqqa non puoi ‘collaborare’ come consulente esterno. Devi essere coinvolto nelle produzioni: nessuno può entrare nello studio, difeso da un livello di segretezza altissimo. Il cuore del Califfato non è strutturato intorno a una caserma o ai pozzi di petrolio. Ma a un centro media. “È uno studio del terrore, che può diventare uno studio della morte in ogni momento. Perché un'immagine può decidere la sorte di una persona”.

In effetti, se è lì che vengono scritte le sceneggiature dei docufilm dell'Isis, significa che viene deciso anche come un prigioniero dovrà essere ucciso, cosa dovrà subire prima di morire, chi sarà a togliergli la vita. Queste parole Zyad le ha pronunciate davanti a una telecamera, a viso coperto nel film documentario ‘Terror Studios’ di Alexis Marant. Un lavoro straordinario che indaga la macchina di propaganda dell'Isis.
Sigle paramilitari e terroristiche richiedono decenni di azioni simboliche per essere conosciute, l'Isis invece scala in fretta lo share televisivo, la potenza degli hashtag, il meccanismo della condivisione. Marant me lo dice chiaramente: “L'Isis ha un termine per questo: ‘Jihad mediatica’. Questo dimostra l'importanza della battaglia mediatica nella loro strategia globale”…
Zyad ha partecipato all'offensiva contro la 17esima divisione dell'esercito siriano: per riprenderla l'Isis aveva mandato al seguito dei soldati anche 5 cameramen armati di telecamere professionali, oltre a una trentina di videocamere GoPro che erano state montate sulle teste o sulle armi dei combattenti per raccontare la battaglia in soggettiva. Per ogni battaglia Isis schiera i cosiddetti reporter-fighters, importanti quanto i soldati che combattono con le armi. Esistono manuali anche per loro, video che ne esaltano coraggio e professionalità. Chiedo a Zyad com'è composta una troupe dell'Isis. “In caso di un'offensiva si mobilitano 12 persone. Per il filmato di un'esecuzione, ne bastano cinque”.
Ciò che mi interessa di questo ragazzo siriano è la sua chiara visione della strategia mediatica dell'Isis. Il giornalista Wassim Nasr esperto in comunicazione jihadista, sostiene che l'Isis è consapevole di come la guerra in Siria, a differenza dell'Afghanistan, venga percepita più vicina e quindi mediaticamente più attraente dall'Occidente: ‘È una vetrina, un teatro con un valore inestimabile’. Secondo Zyad, le produzioni dell'Isis superano quelle americane in qualità tecnologica: la dimostrazione è che le truppe del califfato abbandonano spesso nella fuga videocamere e microfoni di altissima qualità.
In ‘Terror Studios’ per la prima volta si racconta come tra i professionisti del montaggio e della fotografia nel centro media di Raqqa ci siano anche giovani che hanno lavorato per gli studios attirati dalla possibilità di combattere, grazie alle loro competenze, una guerra mediatica. In un misto di delirio sperimentale e militanza, tra ansia di realizzarsi attraverso le immagini e lavorare con gli strumenti che altrove sono semplice intrattenimento. Tutto molto distante da una scelta religiosa…

Zyad vede tutta questa storia come una rivincita del mondo islamico sulla cinematografia occidentale: “Noi arabi siamo sempre dipinti come degli stupidi nei film hollywoodiani. Ma ogni azione ha una reazione e questa è la reazione di Daesh: ora sono meglio degli americani. Nei film d'azione hollywoodiani ci sono persone pazze che si divertono a uccidere. Anche con l'Isis è lo stesso. Ma qui non è un gioco, è reale”.
Zyad ha rivelato l'esistenza di una squadra d'élite: professionisti americani, britannici e sauditi che realizzano i video più importanti, quelli attraverso cui l'Isis vuole mandare messaggi al resto del mondo. Sono loro che hanno girato l'esecuzione del pilota giordano bruciato vivo in una gabbia vestito con la tuta arancione identica a quelle fatte indossare dagli americani ai prigionieri di Guantanamo. Nel team che ha realizzato quel video c'era Abu Missab, detto ‘il giordano’: in ‘Terror Studios’ Zyad rivela che al pilota era stato detto come muoversi sulla ‘scena’, quasi fosse un attore…”.

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