Recensione: ‘Birdman’

Scriviamo volutamente queste note immediatamente prima della ‘notte degli Oscar’, dove il film di cui trattiamo questa volta, ‘Birdman’, potrebbe fare incetta di premi, al pari dell’altro ‘grande candidato’, il fantasmagorico ‘Grand Budapest Hotel’, di cui abbiamo scritto nei mesi scorsi.

Non potrebbero esserci due cose più diverse, per la verità: se ‘Grand Budapest Hotel’ è pura festa visiva, è gioiosa fantasia filmica all’opera, ‘Birdman’ è tormento visivo, acuta e dolorosa riflessione sulla vita, sul teatro e sul cinema, opera un po’ cupa, sia pure attenuata da tratti da commedia, e quanto al linguaggio, è a sua volta pura invenzione, con assenza apparente di montaggio e puro ricorso ai piani sequenza; la macchina da presa vaga inquieta e un po’ isterica per il teatro americano che è il set del film, per le vie di New York (o meglio per Broadway) e anche (persino) per le ‘vie del cielo’, senza trovare mai pace.

Non trova pace neanche il protagonista di questo lungometraggio del regista messicano Alejandro Gonzàles Inàrritu, un raffinato autore che ha fatto finora pochi ma ‘importanti’ film: si tratta di Riggan Thompson, conosciuto dai più per aver interpretato anni prima sul grande schermo un super-eroe delle solite saghe americane, Birdman, ma ora alla ricerca di una rinascita da ‘vero attore’ proprio in un illustre teatro di Broadway. Tormentato fino allo spasimo dall’imminenza della ‘prima’, preceduta dalle ‘anteprime’ riservate (dove succede un po’ di tutto), Riggan trascura un po’ tutti: la ex moglie che l’ha lasciato ma un po’ lo ama ancora, la figlia che cerca di disintossicarsi dalla droga e avrebbe bisogno di un padre presente e in grado di aiutarla, l’amante che simula gravidanze per cercare la sua attenzione, persino il suo manager-avvocato che cerca in ogni modo di salvare la baracca inventando a getto continuo ‘espedienti’ per far accorrere il pubblico al botteghino.

Alla fine Riggan si produce in dialoghi finti e surreali con il suo alter ego, proprio l’amato-odiato Birdman, l’uomo uccello con tanto di adeguato costume che lo tormenta e lo contraddice, fino a provocargli terribili scoppi d’ira e devastazioni del camerino.

In cerca di un testo che dimostri la sua stoffa d’attore, Riggan ha ora messo in scena un impegnativo e duro adattamento teatrale di un racconto di Raymond Carver, ‘What We Talk About When We Talk About Love’.

L’impresa è di quelle durissime, perché il testo, diciamolo, è un ‘mattone’ e il pubblico accorrerà solo se ci sarà qualcosa che lo attirerà, fosse anche solo la curiosità di vedere l’ex Birdman impegnato in un ‘ingrato’ ruolo teatrale. A movimentare il tutto ci pensa però l’altrettanto irrequieto Mike Shiner, bel tomo che confonde vita e scena, inquieto e a tratti insopportabile ‘animale da palcoscenico’, convocato in extremis dopo un grave incidente (o altro, non si capisce bene) all’attore convocato in precedenza. Mike, un bravo Edward Norton, ne combina di tutti i colori. In scena improvvisa e costringe gli altri ad adeguarsi, fino a fare sul serio in una scena di sesso nel corso di una anteprima, con l’attrice co-protagonista che la prende naturalmente molto male.

Alla fine però il pubblico fa la fila per vedere lo spettacolo e da domare c’è solo la tremenda e un po’isterica critica del ‘New York Times’, influentissima, che promette di stroncare lo spettacolo senza ancor saperne nulla. Riggan litiga con lei nel bar accanto al teatro e per la rabbia finisce per ubriacarsi, rimanendo brillo a dormire per strada proprio la notte che precede l’attesissima ‘prima’.

Alla fine però ci sarà il trionfo in scena, ma a che prezzo! Riggan ornai incapace di distinguere anche lui scena e vita, sceglie di non simulare il colpo di pistola finale da suicida con cui la piéce si conclude e finisce, vivo per miracolo, all’ospedale. Il pubblico però è in delirio: i giornali parlano solo di lui, i social media esplodono e la stessa arcigna critica del ‘New York Times’ ha cambiato bandiera e lo elogia a spada tratta.

Fin qui la trama. Tutto questo, per la verità, sarebbe difficile da reggere per il pubblico del cinema, poiché si tratta di un vero tormento intellettuale su arte e vita, se Inàrritu non ci mettesse una straordinaria arte registica e di sceneggiatura: appunto gli incredibili piani sequenza, prima di tutto, con una macchina da presa che, mai ferma, vaga qui e là, inseguendo fatti, personaggi, situazioni, ambienti, senza trovare quiete. E ad alleggerire i toni, ecco poi squisiti toni da commedia: il bizzarro Mike si presenta alla figlia di Riggan (che alla fine seduce) spogliandosi nudo in sua presenza al guardaroba, con inevitabile scandalo, poi si mostra al pubblico di una delle anteprime e alla partner allibita con una megaerezione da primato. Riggan, poi, in ansia poco prima di andare in scena, esce per fumare ma la porta lo tradisce rubandogli anche la vestaglia: finisce così, in mutande, a correre per le vie di New York, con un pubblico che non si nega di chiedergli l’autografo (in quelle condizioni!), cercando disperatamente di riguadagnare l’ingresso del teatro (e il video virale della sgradita perfomance ottiene infinite visualizzazioni).

Il regista si concede dunque qualche divertimento ma è - e si vede - un vero pignolo delle riprese e della sceneggiatura. La cinepresa sembra appunto andare per conto suo alla ricerca di quel che succede, ma naturalmente tutto è invece scritto e preparato con infinita cura.

Anche gli interpreti sono da antologia, con il protagonista Michael Keaton in primo piano, che si impegna tantissimo, anche perché - cosa che ha attratto non poca curiosità - è stato davvero sullo schermo un super-eroe dei fumetti, ovvero Batman, nei film di qualche anno fa di Tim Burton, per poi finire un po’ dimenticato. Insomma un intrigante parallelo fra la sorte dell’attore e quella del personaggio interpretato, due vite che sembrano quasi procedere parallele (anche perché fra Birdman e Batman le differenze sono relative). E per chi non ne avesse ancor abbastanza, ecco che anche l’altro attore dello spettacolo di Broadway, il citato Mike Shiner, ovvero Edward Norton, è stato interprete di un super-eroe, per poi rifiutare di proseguire nel genere.

Il gioco di specchi potrebbe non finire mai, perché appunto siamo allo spettacolo nello spettacolo, al teatro nel film, al cinema (i super-eroi che tanto contano nel cinema americano che si rivolge specialmente ai teen-agers) nel cinema, alla vita che alla fine si risolve sulla scena o sul set e viceversa.

La raffinatezza del film di Alejandro Gonzàles Inàrritu è evidente e anche se non si tratta di un’opera che ‘arriva’ con facilità al pubblico, l’impresa è a suo modo mirabile. Forse un capolavoro è troppo ma un esercizio straordinario di stile sì, una acutissima riflessione su vita e arte anche, un gioco visivo sostenuto da una tecnica sopraffina pure. E anche una satira sugli attori che si prendono tanto sul serio, sul teatro e sul cinema in America, su quei critici cattivi per partito preso che contano magari tanto ma vivono così male la loro vita e il loro lavoro…

Lo sguardo qui si potrebbe per certi versi paragonare a quello spietato di Altman ma manca la straordinaria capacità di analisi e di rappresentazione semplice e al contempo iper-critica di quest’ultimo. Ciò non toglie che il film sia un’opera di tutto rilievo e se arriveranno gli Oscar, saranno ben meritati.

Pubblica i tuoi commenti