Recensione: ‘Che strano chiamarsi Federico’

Scola racconta Fellini e rievoca con affetto e nostalgia la sua giovinezza, presto vissuta in comune con l’amico Federico. Un vero maestro del cinema torna solo per l’occasione alla regia ma alla fine convince solo a metà…

La sciarpa rossa di sempre e i bellissimi fondali di Cinecittà evocano un mondo meraviglioso, quello che, da grande sognatore dedicatosi al cinema, Federico Fellini ha fatto sognare a tutti noi per molti anni, regalandoci opere che sono state più volte premiate con l'Oscar e che hanno dato un grande lustro al nostro Paese, alla sua cultura, alla sua fama a livello internazionale.
Alle prese con l'idea di narrare la storia dell'amico Federico Fellini a vent'anni dalla morte e di farne capire la vera personalità, inestricabilmente unita alla sua fin dai tempi della giovinezza, Ettore Scola sembra in parte quasi riluttante a farlo davvero, in questo strano film-documentario che segna il suo (provvisorio e del tutto 'd'occasione', per carità, secondo le sue stesse dichiarazioni) ritorno alla regia. Vuole evitare a tutti i costi l'epica d'occasione - questo si capisce bene - e allora nella seconda parte del film scivola via in un modo che certo il pubblico non si aspetta su tutta l'epoca della 'grande fama' di Fellini, sul suo enorme successo, sulle sue stesse grandi opere; preferisce farne vedere dei magnifici frammenti quando Federico, scappato di nascosto dalle celebrazioni in occasione della sua stessa morte, sfugge a tutti (e alle forze dell'ordine) e si va a rifugiare in un parco giochi per bambini.
Il 'narratore' del film (è Vittorio Viviani e qui si ricordano un po' le suggestioni di 'Amarcord') spiega allora: 'Fellini per fortuna non è mai diventato un bambino per bene', insomma la sua grandezza coincide con la sua fama meritata di magnifico bugiardo, di Pinocchio che sognava un altro mondo e con i suoi film meravigliosi appunto lo faceva sognare a tutti. L'esatto contrario del 'cineasta di regime', dell'intellettuale fiore all'occhiello di qualsiasi Governo o anche solo di un Paese, un eterno ragazzo che si voleva solo e sempre divertire e che alle cerimonie di consegna dell'Oscar diceva solo 'Giulietta, stop cry', perché la retorica proprio non faceva per lui e insomma anche la commozione andava bene, ma solo per un po'.
Scola la vede così e la vede giusta, probabilmente, ma questa seconda parte che scivola via, con questo fuggire di Fellini dalla sua stessa gloria, affascina ma rende il film molto diverso dalla prima parte, dove invece si raccontano le vicende, note sì ma molto meno conosciute, di Fellini, quello di giovanissimo disegnatore del 'Marc'Aurelio', di fine e tenero osservatore della realtà che lo circonda da far poi passare agli altri attraverso una vignetta, una battuta, un motto d'umorismo.
Insomma, la seconda parte di 'Che strano chiamarsi Federico' (film che mette insieme Bim, Rai Cinema, Luce, Cinecittà Studios, PayperMoon e soprattutto Palomar) sembra un sogno sul grande sognatore, mentre nella prima siamo dalle parti della fiction, una fiction in bianco e nero che si avvale di bravi attori (Fellini giovane è Tommaso Lazotti) ma anche di spezzoni di film (e di magnifici provini, anche di grandi 'mattatori' come Gassman) e di documenti d'epoca, riuscendo ad appassionare alla storia e alla vita di un grande regista.
Alla storia di Federico Fellini ma anche a quella di Ettore Scola, ovviamente, quando i due si ritrovano nella redazione del periodico umoristico e poi ai tavolini di un bar a parlare di donne e di cinema, a spettegolare un po' e a divertirsi semplicemente a tirar tardi conversando, come accade a tanti, con grande semplicità, in giovinezza.
Questa parte del film è bella e garbata, si evitano anche qui i toni da 'romanzo', si cerca di raccontare le cose non con nostalgia ma con un affettuoso ricordo, che sia anche, nei limiti del possibile, onesta rappresentazione dei fatti e delle persone.
In mezzo alle vignette del Marc'Aurelio c'è tanto cinema e il mitico Teatro 5 di Cinecittà è l'altro grande protagonista, assieme alla magia di quel cinema, di quegli attori, di quelle maestranze, di quell'atmosfera che ha fatto così grande il nostro cinema.
Scola si sofferma molto su tutta questa parte della vicenda umana di Fellini (e di se stesso) non lesinando persino gli aneddoti e qui ci si diverte davvero, poi prende improvvisamente un altro tono, come abbiamo detto, e Fellini adulto non a caso si vede solo di spalle, riconoscibile per la sciarpa e il cappotto.
Il cinema di Fellini è rievocato con documenti affascinanti d'epoca, talora chicche vere e proprie, ma soprattutto con l'incontro con alcuni strani personaggi che sembrano corrispondere quasi ad alcuni 'sogni' di Federico: c'è il pittore di strada Sergio Rubini che disdegna il cinema perché “l'arte figurativa è superiore”, c'è una prostituta marchigiana molto 'speciale' che illude se stessa proclamando di 'essere all'ultima sera', perché da domani si cambia e il suo fidanzato la sposerà ma poi si scopre che lui vuole solo i suoi soldi e lei stessa lo sa, ma vive volentieri della sua illusione fasulla.
Sono figurine deliziose e ben interpretate, che rendono simpatico il film, il cui limite però resta la complessiva disomogeneità. Mischiare tutte i registri non giova, alla fine, a una coerenza dell'opera che pure forse era meglio conservare.
In conclusione, un omaggio di un grande maestro del cinema all'artista più grande, ma anche al compagno di avventure e di scorribande giovanili, all'amico e complice di una vita. Come tale, un'opera che va vista e rispettata, possibilmente facendosi prendere ancora una volta dalla grande magia della settima arte.

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