Il film di Gianfranco Rosi, che fa seguito ad alcune altre opere che già hanno fatto incetta di premi (si pensi al ‘Sacro Gra’ sulla vita di quanti gravitano sul Grande Raccordo Anulare di Roma), può ridestare antichi dibattiti sulla natura stessa del cinema.
Cos’è infatti ‘Fuocoammare’? Tutto porta a definirlo un documentario, visto che l’ambientazione è reale (Lampedusa, lembo estremo sud dell’Italia) e i personaggi sono veri abitanti dell’isola in questione, ripresi durante le loro ‘normali’ giornate di vita. Ma l’opera ha il ‘passo’ e la durata del lungometraggio ‘a soggetto’ ed è distribuita nelle sale come gli altri film ‘di finzione’, senza dimenticare che è stata prodotta da Rai Cinema e dal glorioso Istituto Luce Cinecittà (che fa davvero piacere rivedere nei ‘titoli di testa’ con il suo attuale logo).
I personaggi ripresi e presentati al pubblico, in realtà, sono poche figure emblematiche scelte da Rosi per far capire quale sia la natura e l’anima di Lampedusa e potrebbero persino in teoria essere frutto di ‘invenzione’, non cambierebbe poi gran che.
Documentario allora, non opera a soggetto e assolutamente non inchiesta giornalistica, ma documentario di un tipo che non siamo abituati a vedere o almeno non in sala, e qui si tornerebbe anche con la memoria a quei documentari (per non parlare dei cinegiornali) che vedevamo un tempo, in genere malvolentieri, prima del film nelle sale, opere non di rado noiose, su temi tipo l’arte o la natura, con tanto di compitissima ‘voce narrante’.
Ebbene, qui la voce narrante non c’è del tutto, parlano semplicemente le immagini, perché i dialoghi sono pochi, spesso dominano il silenzio e il lavoro, quello di chi va in mare, del medico che soccorre i migranti (ne parleremo), di chi si occupa del centro di accoglienza, della donna in casa che rifà il letto con ogni cura, punto per punto, o prepara da mangiare, anche del conduttore di Radio Delta, che a Lampedusa è una vera compagna di vita per chi abita l’isola e qui l’antico rito delle dediche e richieste ha ancora un senso profondo.
Poi c’è il ragazzo, Samuele, un modo diverso e antico di affrontare la vita rispetto a tanti suoi coetanei di altre parti d’Italia, affidato all’arte di salire sugli alberi, alla fionda con cui destreggiarsi, anche al ‘gioco della guerra’, innocuo perché rigorosamente ‘finto’. Samuele sta crescendo e ha i suoi problemi, per esempio ci vede maluccio, mangia in un modo buffo, ‘aspirando’ letteralmente il cibo, e ha il mal di mare, cosa che a Lampedusa sembra un po’ contronatura, ma aspetta di diventare uomo, in fondo sereno e tranquillo.
Ecco, la tranquillità, la saggezza antica e la sobrietà di una vita che ha poco a che fare con quella del resto d’Italia, quella propria di un luogo dove la natura e il mare sono ancora i veri protagonisti, sembrano le chiavi che hanno consentito a Lampedusa di reggere l’impeto di una tragedia immane come quella delle traversate e delle tante morti dei migranti, che oggi si ripete, amplificata ancor di più, su alcune isole greche, per le quali il discorso, forse, non è molto diverso.
‘Fuocoammare’ non è dunque solo un’antica canzone di Lampedusa, è il simbolo di una comunità ancora incontaminata, dove il denaro non è l’unico valore, dove la tradizione di accogliere chiunque ‘venga dal mare’ ha ancora un senso profondo, è un dovere che si compie credendoci profondamente, mentre ogni morte, ogni cadavere che viene tratto a riva è una ferita e mai una consuetudine a cui ci si abitua.
Rosi ha avuto per sua fortuna i finanziamenti ‘giusti’e tanto tempo a disposizione (rispetto ai ritmi imposti dalle odierne produzioni) per conoscere davvero Lampedusa, si è immerso nella sua realtà e ha eletto a suo ‘alter ego’ il medico di Lampedusa Pietro Bartolo, che ha soccorso e aiutato migliaia di migranti in questi anni, un uomo di antica dignità e di grande spessore che ha portato con sé a Berlino, dedicandogli anche il premio ricevuto.
Protagonista di ‘Fuocoammare’ è dunque la gente di Lampedusa, alcuni abitanti di questa straordinaria isola che ne rappresentano l’identità, e la camera da presa li segue costantemente, ferma e ‘silenziosa’, sempre senza fretta, lenta e dignitosa come lo sono loro, nella loro vita quotidiana.
Poi ci sono ovviamente le parti dedicate alla tragedia dei migranti ma Rosi sceglie anche qui una chiave assolutamente inedita. Dedica l’apertura ai difficili dialoghi in mare con un barcone alla deriva che chiede soccorso e mostra poi il primo trasferimento di chi arriva dal mare, l’accoglienza professionale ma sempre umanissima delle forze dell’ordine e di quanti seguono le meticolose operazioni. Le tragedie, naturalmente, ci sono e Rosi ce lo ricorda nel finale ma senza mai eccedere, con pochi ‘flash’, perché i toni sobri e il dolore composto sono la migliore reazione possibile a Lampedusa.
C’è poi un momento straordinario, quando un nigeriano si dedica a una sorta di gospel (ma vien quasi voglia di definirlo un ‘rap’) che racconta la sua vita e la sua tragedia di migrante, con alcuni altri compagni di sventura a fargli da coro, un modo bello e poetico, anche qui, di raccontare vicende così strazianti.
Alla fine si compone un puzzle che racconta con la semplicità più autentica (per quanto calcolatissima dal punto di vista estetico e cinematografico) e con l’efficacia che forse nessun’altra opera, sia di finzione che a carattere documentaristico, avrebbe potuto avere, un luogo, la sua gente, le tragedie che qui ci si trova ad affrontare. Un meritato Orso d’Oro.
Condivido questa splendida recensione. Amo profondamente
Lampedusa!
precisa e dettagliata