Ma cos’è il giornalismo - e in specifico il giornalismo d’inchiesta - oggi? Domanda delle cento pistole, si sarebbe detto un tempo.
Molti lamentano la mancanza, nella routine giornalistica di oggi, almeno in Italia, di un effettivo giornalismo d’inchiesta, a favore del ‘regno dell’‘effimero’, delle mode e dei ‘luoghi comuni’ giornalistici, ma diciamo che questa è forse solo una parte della verità.
Luoghi in cui approfondire come si deve gli argomenti, infatti, ancora ci sono. Pensiamo in Tv al glorioso ‘Report’ e ad altri programmi ‘simili’ (come ‘Presa diretta’) e sui quotidiani al lavoro di qualche inviato di grande prestigio, che ancora è all’opera, sulla scia di un’antica tradizione. Però siamo sempre nell’individualismo; più difficile è la strada di inchieste che siano ‘opera collettiva’ di giornalisti, anche se qualcosa si è visto, anche con la collaborazione di diverse redazioni, di giornali e giornalisti di diversa nazionalità. Poi c’è il Web, con tante singole iniziative, con la strada tortuosa e discussa di Wikileaks, di Edward Snowden, e ci sono esperienze diverse come Vice e simili.
Il paradosso vero però è che oggi, a fronte di un giornalismo ‘tradizionale’ ancora ben remunerato ma spesso ingessato e non sempre credibile, premono nuove generazioni di giovani free-lance, che ‘ci provano’, con passione e impegno, senza garanzie e con poche soddisfazioni economiche, non di rado anzi alla disperata ricerca di finanziatori che consentano di fare il mestiere nel modo più libero e ‘nobile’, quella modalità che ancor oggi esercita parecchio fascino su chi si affaccia alla professione con le migliori intenzioni e i più apprezzabili ideali.
Alle difficoltà di fare il mestiere ‘come si deve’ in un mondo dell’informazione che è profondamente cambiato e ha tanti problemi economici, come tutti sappiamo, corrisponde - si direbbe - un gran numero di bravi giovani aspiranti giornalisti, che hanno peraltro da tempo rinunciato al benessere che la professione un tempo garantiva ma sanno di dover vivere nella precarietà e nel disagio, ma non per questo rinunciano.
E per non perderci definitivamente nei nostri discorsi non ci avventuriamo nel vastissimo campo dei social media, dei video reporter e simili e della loro influenza, spesso assai importante, sul giornalismo di oggi, non di rado svolgendo pure un ruolo integrativo e ‘di supplenza’ a Tv e giornali ‘pigri’ e indolenti.
Questa lunghissima premessa fa da giusto sfondo da non dimenticare per giudicare un film come ‘Il caso Spotlight’, che sembra invece il trionfo del giornalismo tradizionale, del lavoro d’équipe in redazione, sulla scia di ‘Tutti gli uomini del presidente’ di buona memoria: allora erano il ‘Washington Post’ e il ‘caso Watergate’, anche se i reporter all’opera erano solo due; qui sono di scena, in anni più recenti (inizio 2002), il quotidiano ‘The Boston Globe’ e lo scandalo dei tanti ‘preti pedofili’ nella stessa Boston, con le complicità del vescovo della città e dunque dell’istituzione Chiesa Cattolica in quanto tale, che vengono però alla fine ‘smascherate’, grazie a un meticoloso, lungo e implacabile lavoro giornalistico collettivo; i giornalisti si propongono pertanto nel modo migliore come il famoso ‘quarto potere’ che tutti ricordiamo.
Il film di Tom Mc Carthy celebra tutto questo senza mai eccedere nei toni ma a sua volta con implacabile meticolosità e con la struttura e la forza di un thriller, in cui è un po’ scontato il lieto fine. Senza mai distrarsi, il lungometraggio illustra la nascita dell’inchiesta, la sua lunga gestazione, le ricerche appassionate di un gruppo coeso e determinato di reporter del quotidiano, in cui i diversi caratteri e le singole personalità si muovono armoniosamente, con pochi momenti di contrasto e di polemica, nell’ottica di un buon lavoro complessivo, a vantaggio dei lettori e della buona informazione. Il direttore è modesto e sobrio ma inflessibile nell’andare fino in fondo, la proprietà si vede pochissimo ma incoraggia e approva, pregustando buona fama e tante copie vendute.
Quando piomba sulla redazione, in un momento-chiave, la tragedia dell’11 settembre 2001, con la necessità di lasciar perdere per un momento il tema dei preti pedofili, sovrastato da quello del terrorismo, c’è un momento di sbandamento, ma presto si rientra nei binari e si va avanti fino alla fine, fino alla pubblicazione, inflessibili nel procurarsi e dare tutte le notizie, nel seguire tutte le regole della professione (compresa quella di dare la possibilità al vescovo di replicare, s’intende) e ci si concede anche un po’ di autocritica rispetto al passato (la mancata inchiesta negli anni precedenti sullo stesso tema) e ovviamente anche la soddisfazione di aver ‘fatto meglio’ della concorrenza.
Nulla da dire sul film, il ritmo è incalzante e appassionante, la narrazione precisa e circostanziata a sua volta, gli attori bravissimi; le singole vite e vicende dei giornalisti non danno la possibilità di grandi distrazioni, perché un ‘reporter vero’, in questa visione un po’ ideale delle cose, lo è 24 ore su 24, se le cìrcostanze glielo impongono, e caratteri, passioni, amori e amicizie non possono contare più della ‘missione informativa’ cui ci si dedica tutti insieme.
Quando le rotative sfornano le copie del ‘Boston Globe’ con l’inchiesta che smaschera il vescovo e racconta le brutali storie di bimbi abusati dai preti pedofili e quando i furgoni caricano le copie per portarle alle edicole, sembra di assistere all’“arrivano i nostri” di buona memoria e lo diciamo senza alcuna ironia e anzi con viva soddisfazione.
Bello, molto bello, ma ci resta un dubbio: oggi una cosa simile sarebbe ancora possibile, qual è ora la situazione magari proprio dello stesso ‘Boston Globe’, ci sono ancora quell’editore, quella organizzata e ideale struttura redazionale, sarebbe possibile adesso adibire a un tema e ad una sola inchiesta un gruppo redazionale per settimane e settimane, l’editore tacerebbe silenzioso anche nel 2016? E i quotidiani cartacei, dovunque in difficoltà, sarebbero ancora in grado di produrre inchieste simili? Ci potrebbero anche solo pensare i vari giornali che escono solamente on line?
Qualche dubbio è appunto lecito e allora ‘Il caso Spotlight’ potrebbe anche restare nella storia come ‘l’ultima impresa’, il canto del cigno di un mondo che non può più funzionare così, un glorioso passato da non dimenticare ma non più reale oggi.
Troppo pessimismo? Non crediamo, solo la presa d’atto di un mondo giornalistico in tumultuosa trasformazione, dove però ci sarà sempre qualcuno che, magari in forme decisamente nuove, andrà ancora alla ricerca della verità, o almeno di una buona e corretta informazione.