Mario Martone affronta l’ardua impresa di fare un film su un personaggio che tutti ricordano dai libri di scuola ma che è anche attualissimo: Giacomo Leopardi. Grazie a un formidabile Elio Germano, l’operazione riesce, con un esito felice e con diverse immagini straordinarie.

Ama le imprese difficili Mario Martone. Il regista napoletano lo aveva già dimostrato in 'Noi credevamo', in cui si assunse il compito, nell'ambito di celebrazioni che non di rado (diciamolo) lasciavano un po' il tempo che trovavano, di ricordare con un film come sia avvenuta la nascita di un Paese come il nostro, quali fossero le sorgenti ideali e di libertà da cui ebbe origine il Risorgimento. Quel film si assunse un compito ingrato e arduo da ogni punto di vista e Martone ci mise tanto impegno, con risultati magari non sempre perfetti ma con una buona volontà e un coraggio assolutamente apprezzabili.
Forse - viene da ricordare - di meglio, in quelle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, fece solo Benigni con la straordinaria recita e poi il canto dell'Inno di Mameli in Tv, che in poche battute ci fece capire un'epoca, gli ideali di quei giovani, i fermenti rivoluzionari di chi voleva andare verso un totale cambiamento e creare un Paese indipendente e unitario.
Abbiamo ricordato questo precedente perché la nuova impresa in cui si è imbarcato Martone è stata altrettanto ardua. Dopo aver rappresentato a teatro le 'Operette Morali', il regista campano ha voluto fare un film proprio su di lui, l'incubo e al contempo il 'grande riferimento' di tanti studenti adolescenti, il grande Giacomo Leopardi. Personaggio difficilissimo da rappresentare proprio per la fama di 'classico' che lo contraddistingue e lo penalizza, perché fare un film su un grande poeta è, come si suol dire, 'una parola', e anche per la fama di 'perdente' e di 'maledetto' che caratterizzano l'uomo e l'artista. Il poeta dei grandi interrogativi sull'esistenza, il cantore del disagio e della maledizione del vivere, l'uomo gobbo e rachitico, sempre infermo e malaticcio, che però incantava con la sua capacità di comporre poesie e prose incantevoli, impareggiabili nel descrivere dolore e malinconia, struggimento e disperazione, ma anche rabbia, sarcasmo, voglia di rivoluzione e di cambiare tutto.
Si poteva fare un film su Leopardi che riuscisse a descriverlo bene e a non tradirlo, mettendo magari insieme una biografia non banale, che fosse efficace per gli studenti attuali e i tanti ex studenti che voglio 'rivisitare' oggi il poeta? A Martone serviva prima di tutto un grande attore e a pensarci bene quell'attore non poteva essere che lui, sì, Elio Germano, capace di immedesimarsi in pieno in un personaggio, di renderlo al meglio come nessuno, di sovrapporsi completamente a lui e 'farlo proprio'. Germano diventa dunque il gobbo Leopardi e si assoggetta a rappresentarlo nella sua fragilità e quasi deformità fisica (recitare da gobbo per un intero film è un'impresa), nella sua disperata cultura e nella sua magica vena artistica, nella sua forte rabbia e ironia verso gli altri, i potenti, l'ordine costituito e il mondo intero.
La vita di Leopardi ci viene illustrata quasi per intero, con un breve flash su Giacomo bambino con il fratello e l'amata sorella (prova a rappresentarla Isabella Ragonese), con la severa e autorevole figura del padre Monaldo, con i tanti anni di studio matto e disperatissimo, con l'inizio delle attività poetiche e poi l'intenso carteggio con Pietro Giordani. Che alla fine viene a trovarlo e lo trova intento al solo pensiero di andarsene da Recanati, di lasciare la maledetta provincia e provare ad affrontare il mondo, proprio lui che amava e bramava vivere da solo e nel completo isolamento, lui gracile, malato e gobbo, forte quale unica ricchezza della sua cultura e della sua erudizione, della straordinaria vena artistica.
Seguono le vicende fiorentine, con il rifiuto sostanziale della 'società letteraria' del Gabinetto Vieusseux, con le aspre sentenze del rivale Tommaseo e le sfortunate vicende sentimentali con la contessa Fanny, che gli preferisce l'amico e avvenente conte Antonio Ranieri (Michele Riondino), con cui tuttavia fa coppia fissa, fino a suggellare un'eterna amicizia che (ci fa capire con delicatezza Martone) non si preclude magari un piccolo risvolto omosessuale.
Dopo Firenze e un breve intervallo a Roma, si arriva alla trasferta napoletana finale, dove il lungo (due ore e mezza almeno) film, sempre molto attento a cercare e trovare la misura giusta nel rappresentare un personaggio così impegnativo, trova il suo tono migliore. Approdato nella sua Napoli, Martone riesce a girare immagini magnifiche, mentre la fotografia e le scenografie sono quasi stupefacenti, la regia ammirevole e la mano fermissima, la rappresentazione potente e sontuosa.
Vediamo Leopardi portato quasi a forza in un bordello dove si trova alle prese con un femminiello ma soprattutto con scugnizzi cattivi e molesti (qui la scena di nudo frontale, pur funzionale alla rappresentazione completa di un Leopardi dalla sessualità sofferente e frustrata, poteva forse anche essere evitata), la terribile realtà del colera e le processioni popolari, la forza irresistibile dei dolci e dei gelati napoletani in cui Giacomo si rifugia nonostante gli assoluti divieti dei medici, il calore, il colore, la vitalità e la forza della plebe partenopea osteggiata e al contempo anche amata da Leopardi che, in una delle scene più belle del film, si ritrova a bere e a scherzare in allegria in una bettola, trascurando e disprezzando invece i salotti letterari e gli editori chiamati a pubblicare le sue poesie. Poi l'eruzione del Vesuvio vista da Torre del Greco, con la citazione della celebre poesia della 'Ginestra'.
Il problema di un film simile, che è riuscito a trovare il tono giusto per raccontarci una vita straordinaria e al contempo sfortunatissima, era il linguaggio. Come fare a rendere la vena poetica stupefacente di Leopardi, come far vivere le sue poesie e la sua arte sublime, senza negare la realtà di sofferenza umana da cui essa nasceva? Il film è fitto di letture e declamazioni, si dettano lettere e si intessono dialoghi forti e impegnativi, la scelta è vincente anche in questo caso, perché si illustrano al contempo una vita e un'arte senza sminuire nessuna delle due. Inconsueta la scelta musicale, che mescola brani operistici dell'epoca (Rossini) con musiche attuali ed elettroniche.
Un film bello e possente, prodotto da Rai e Palomar, che ben potrebbe rappresentarci all'Oscar - riteniamo, e questo senza nessuna polemica con il pur bravo Virzì - , che farà ricordare a dovere anche in futuro la vita di questo 'giovane favoloso' che, nella sua immensa sofferenza di vivere, era tuttavia capace di impeti di orgoglio e di feroce sarcasmo. Al caffè, agli interlocutori che gli rimproveravano la costante malinconia delle sue opere e ne attribuivano la colpa alle sue 'disgrazie fisiche', Leopardi ribatteva con rabbia: “Non attribuite alla sofferenza fisica quella ricerca artistica e quelle considerazioni morali che sono solo frutto dell'intelletto!”.
Come non amare un personaggio così?