Recensione: ‘Il nome del figlio’

Si capisce ben presto che l’impianto di ‘Il nome del figlio’ è prettamente teatrale. Il centro del lungometraggio (verrebbe da dire della ‘rappresentazione teatrale’) è una cena fra persone che si conoscono da una vita, amici o parenti, di famiglia o acquisiti, che si ritrovano in una serata a cena a Roma, in una casa situata accanto a un caratteristico bar, e si rendono ben presto conto che quella è l’occasione migliore per ‘dirsela tutta’, per raccontare anche quello che per una vita è stato reciprocamente nascosto, affrontando anche tutti i conflitti e i dolori che questa situazione comporta. Non a caso il film deriva almeno in parte dal fortunato ‘format’ francese ‘Una cena fra amici’, a sua volta tratto da ‘Le prénom’, pièce teatrale di successo di Alexandre de La Patellière.

Ora va ricordato subito che riuscire a fare un film vivo, vivace e anche un minimo originale e fantasioso partendo da una situazione teatrale è una delle cose più difficili da fare. Il film per sua natura è vario, scorre liberamente nei tempi e nei luoghi, il teatro vive in genere della famosa ‘unità di tempo e di luogo’. Due cose opposte, o quasi.

Francesca Archibugi accetta però la sfida e la vince brillantemente grazie a una buona sceneggiatura e ad ottimi dialoghi (il film è stato scritto con uno specialista come Francesco Piccolo), a continue invenzioni visive (non solo il flash-back, un po’ scontato ma sempre efficace, ma anche, per esempio, le riprese in bianco e nero di un elicotterino-giocattolo pilotato dai bambini, ben usato per ‘focalizzare’ in modo diverso il viso dei protagonisti dell’opera) e soprattutto alla gran vena dei suoi attori. Proprio per questo serviva non sbagliare i protagonisti e infatti Francesca Archibugi non li sbaglia: Alessandro Gassman si produce nel suo ormai classico personaggio impulsivo, irruento e ‘sopra le righe’, un agente immobiliare solo apparentemente rozzo e un po’goffo; Luigi Lo Cascio è il classico intellettuale di sinistra aspirante scrittore che vorrebbe sempre ‘volare alto’ ma si ritrova a insegnare più o meno da precario e per questo si rifugia in un mondo parallelo e irreale dominato dalla tecnologia; Rocco Papaleo si impegna nel suo tratto più gentile ed è un tenero musicista un po’ sopra le parti, così buono e comprensivo da apparire agli altri ‘tipicamente gay’, mentre invece lui nasconde un segreto sentimentale per gli altri commensali imbarazzante e quasi inaccettabile; Micaela Ramazzotti non poteva essere che la coatta romana redenta, che, reduce da Palocco e Casalpalocco, impara a scrivere e rilascia interviste da autrice ‘verace’ e appassionata. E anche il personaggio di Valeria Golino (la moglie concreta e vitale, oltre che madre a tempo pieno, del ‘lunatico’ intellettuale Lo Cascio) è interessante.

I cinque, da tempo (in alcuni casi dall’infanzia), vivono spesso insieme ma non si conoscono veramente e solo un pretesto (Gassmann che finge di voler chiamare il figlio in arrivo Benito) scatena i durissimi conflitti tenuti fino a quel momento sopiti: tutto gira intorno alla famiglia Pontecorvo, a suo tempo benestante e di sinistra ma di origine ebraica e dunque perseguitata dal fascismo, nel cui ambito c’è odio e amore, affetto vero ma anche estraneità e un po’ di disprezzo, per le diverse scelte politiche (c’è persino un po’ di ‘Ceravamo tanto amati’ nel film e anche di ‘La Terrazza’, sempre di Scola), di vita, di atteggiamento verso le persone e la società. Ognuno ha dei segreti che pian piano vengono fuori nel corso della cena, con grande stupore e dolore degli altri e l’amico di una vita Rocco Papaleo è quello che più ‘non è quel che sembra’.

Sembrerebbe tutto un po’ pesante ma, oltre a indovinare la scelta registica, come abbiamo visto, Francesca Archibugi ha l’abilità di non appesantire troppo i toni. Così tutto veleggia un po’ sul semiserio, i toni da vera commedia non mancano e rendono il film ‘leggero’, nel senso migliore del termine. Alla fine, anche se finiscono persino per venire alle mani, i protagonisti sono molto umani e hanno tutti i difetti e i limiti (ma anche i pregi) delle persone vere, per cui continuano a stare insieme, nonostante tutto.

A sancire il fatto che non si tratta di un dramma vero e di un pesante ‘atto d’accusa’ a una generazione, bensì di una divertita riflessione (diciamo così) sui ‘limiti’ della nostra specie, è anche il fatto che il film è in qualche modo ispirato all’attuale ‘re della commedia all’italiana’, ovvero Paolo Virzì, sia perché nella produzione c’è la sua Motorino Amaranto, sia per la presenza della moglie Micaela Ramazzotti, al punto che il parto che si vede alla fine del film è quello reale (cesareo) di Micaela e il padre della creatura che viene al mondo è proprio Virzì.

Ma, a conferma del tono semiserio e non inutilmente moralistico del film, c’è anche uno sberleffo finale sul titolo stesso dell’opera, che non vi sveleremo, perché è anch’esso troppo simpatico.

C’è poi un momento assolutamente impagabile di ‘Il nome del figlio’, quello in cui tutti i protagonisti cantano in coro con passione e divertimento una delle più belle canzoni di Lucio Dalla, ‘Telefonami fra vent’anni’ (e infatti li si vede, più o meno adolescenti, fare la stessa cosa vent’anni fa e più). Altro che trenino di Capodanno, la canzone è splendida, il divertimento vero, la situazione irresistibile: anche dalla platea viene una gran voglia di cantare a squarciagola e di unirsi con piacere al gruppetto gaudente.

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