Il film di Matteo Garrone ci ha rappresentato a Cannes assieme a quelli di Moretti e Sorrentino e possiamo dire di aver presentato al Festival comunque alcune delle migliori realtà - se non il ‘top’ assoluto - di quello che un tempo veniva definito il nostro mondo della celluloide.
Garrone non sfigura affatto rispetto agli altri: il film, un fantasy con venature horror tipiche delle favole europee (si pensi ai fratelli Grimm), è un’avventura visiva di prim’ordine e non sfugge sicuramente, vedendolo, quanta sia stata complicata la produzione, pur usando come location solo località del nostro Paese, dal riconoscibile Castel del Monte in Puglia alle incredibile gole dell’Alcantara in Sicilia. La differenza rispetto al passato - anche dello stesso Garrone, che in ‘Gomorra’ e ‘Reality’ aveva raccontato storie dal sapore sì universale, apprezzate proprio a Cannes, ma anche molto ‘italiane’ e anzi ‘napoletane’ o ‘campane’ - è il cercato e trovato ‘sapore internazionale’ del film, che annovera un cast ‘mondiale’ prestigioso, a partire da Salma Hayek e passando per Vincent Cassel, Toby Jones, Shirley Henderson, Stacy Martin, Guillame Delaunay, John C. Reilly.
Forse per questo Garrone si diverte a far comparire, in un singolo momento di uno dei tre episodi di cui si compone il film, due attori italiani noti come Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini, che fanno presto una brutta fine e si può persino pensare a una metafora della chiusura di una fase del ‘tradizionale cinema italiano’.
Vengono raccontate - con una fantasia sfrenata e con splendide immagini di grande impatto - tre storie tratte o ispirate da ‘Lo Cunto de li Cunti’ di Giambattista Basile, un’opera napoletana (manco a dirlo) seicentesca che narra per prima in chiave di fiaba popolare di re e regine, madri e figli, legami di sangue e d’amore, orchi e magie, eros e cupidigia, ricchezza e miseria, giovinezza e vecchiaia, con relativi rimpianti e ricerca del ‘tempo perduto’. Sangue, sudore e lacrime, verrebbe da dire, ed è inutile qui raccontare i tre episodi che sono soprattutto notevoli per la ricerca di immagini potenti e molto espressive, un trionfo del fantasy nel cinema, non in versione ‘gentile’ (elfi, gnomi oppure atmosfere solo magiche alla ‘Harry Potter’) ma, come si diceva, favolistico, con l’accento sulle ‘brutture’ della condizione umana, sulla ‘perversità’ dei legami familiari e sulle loro tragiche conseguenze. Si sfocia così nel tragico, nel barocco, nel gotico, con venature horror, come si diceva, e addirittura si approda dalle parti di Shakespeare (più che del ‘Trono di spade’).
Ma non crediamo sia utile continuare a ‘filosofare’ sulle metafore che Garrone farebbe della condizione umana, bensì lasciarsi andare a uno spettacolo visivo di prim’ordine, che dura circa due ore e vuol dimostrare le possibili capacità internazionali del nostro cinema. Garrone ha affrontato l’impresa con convinzione e tenacia, nonostante le clamorose difficoltà, ha perseguito la ricerca del cast internazionale, ha lavorato sulla materia con bravura e dedizione. Alla fine ha tirato fuori un bel film, diverso dai suoi precedenti e molto godibile anche per gli spettatori, specie quelli più esigenti, che notano le differenze e le tante finezze presenti, un’opera ‘di genere’ che però ha anche la forza, in questo ambito, di fare ‘storia a sè’, nel senso migliore del termine.