‘Ma che mestiere fai tu?’ - chiede la giovane ragazza israeliana che è piombata improvvisamente nella sua vita e nella sua casa, indesiderata ospite per via del fratello che l’ha sedotta e fatta venire da Israele e poi se ne è scappato a gambe levate, a Valerio Mastandrea, protagonista assoluto ed efficace di questo ‘La felicità è un sistema complesso’. La risposta, dopo qualche reticenza, è proprio complessa ed è più o meno questa: ‘aiuto le aziende a liberarsi di proprietari sbagliati, convincendoli a vendere, riinventarsi una vita all’estero e lasciar perdere’.
La professione è proprio sui generis e avrebbe anche un fine sociale ‘positivo’: il problema è però a chi vanno poi a finire queste aziende ‘liberate’ da proprietà ingombranti; chi ne trae vantaggio sono tipi un po’ loschi, spesso vestiti di nero, con in evidenza un padre che sembrerebbe massone (o qualcosa del genere, il regista Zanasi li fa riunire in costume in una simbolica grotta) e un figlio falso cortese che si aiuta nelle sue ‘opere’ con un po’ di droga (Giuseppe Battiston).
Le allusioni allo spietato sistema economico-finanziario che oggi la fa da padrone non solo in Italia sono abbastanza chiare e allora Mastandrea finisce per rendersi conto di essere più che altro una ‘utilissima rotellina’ di un meccanismo cinico e spietato, che non risparmia niente e nessuno e funziona sulla pelle di chi crede e lavora con passione e disinteresse nelle aziende e persino nelle famiglie. Perché ad aprirgli gli occhi è la triste sorte di due ragazzi, trovatisi improvvisamente eredi in giovanissima età di un grande gruppo imprenditoriale per via della morte in un incidente d’auto degli amati genitori. In teoria tutte le decisioni sul futuro delle aziende le dovrebbe prendere il ragazzo, appena maggiorenne e ancora idealista e fraterno non solo con i coetanei, nella sostanza gli si affibbiano molti ‘lavori sporchi’, con provvedimenti solo da firmare senza spiegazioni e dalle conseguenze devastanti. Mastandrea dovrebbe fare da spalla alle operazioni in corso ma dopo molti tormenti interni finisce per ribellarsi, assieme alla coppia di ragazzi.
Raccontato così, il film di Gianni Zanasi, che avevamo conosciuto per un bel lungometraggio di qualche anno fa con una storia non molto dissimile e sempre con Mastandrea protagonista, quella di ‘Non pensarci’ (che ha dato poi vita anche ad una breve serie Tv), sembrerebbe un classico film ‘impegnato’, di forte critica politico-sociale, che propone una ‘ribellione al sistema’. Questo elemento c’è, in effetti, ma il film è anche ben altro: è un’opera fantasiosa e un po’ surreale, molto legata alle storie, agli obblighi e alle tradizioni familiari (o al loro ‘sovvertimento’), dallo stile personale e ambizioso, esteticamente molto ricercata, con divagazioni di vario tipo, simbolismi, momenti intensi e addirittura riferimenti anche un po’ criptici, che il pubblico probabilmente non sempre riesce a cogliere. Se c’è un limite (e c’è), in effetti, è quello di un ‘eccesso’ di materiale, di ambizioni, di ‘messaggi’ e soprattutto di ricerca di stile: una ‘pignoleria’ che sfiora talora l’estetismo.
Ma è un difetto relativo, se si guarda al complesso del film, che denota la bella personalità di un regista non certo prolifico ma capace di storie ‘diverse’, magari anche narrativamente surreali e ‘improbabili’ (come è improbabile il mestiere di Mastandrea) ma affascinanti, fuori dal comune, ‘commedie d’autore’, appunto. Il vero messaggio del film, pieno di musica rock e bei paesaggi lacustri, con tante belle case e hotel di lusso (sembrerebbe di essere dalle parti di Riva del Garda, ma non ci giureremmo), è ‘lasciatevi andare, ribellatevi con la fantasia e con una vita anche alla giornata a qualunque imposizione e obbligo sociale e economico e così qualche valore magari lo ritroverete’.
Simboleggia tutto questo la ragazza israeliana di cui sopra, che non sa alla fine perché è venuta in Italia, impegnata sulla carta a inseguire l’improbabile amore del codardo fratello di Mastandrea (il cui padre a suo tempo se l’è svignata a sua volta all’estero, lasciando tutto e tutti, pure i figli), nella sostanza alla ricerca di una ragione e di uno scopo nella vita. Semplice, istintiva, senza interessi occulti, la nostra vera israeliana, cioè l’attrice Hadas Yaron, riesce a mettere in crisi le certezze di Mastandrea e a quel punto se ne va, quasi avesse terminato il suo compito. Lascia dietro di sé non poco rimpianto e la sincera amicizia della giovane erede, che con lei si mette in cucina a preparare un dolce ‘all’antica’, la divertente ‘torta di noi’ che dà anche il titolo a una canzone, le cui note ci accompagnano ai titoli di coda, alla chiusura di un film non perfetto ma sincero e ‘diverso’, divertente, originale e fantasioso, un’opera che vale la pena di vedere.