Questo film francese di Stéphane Brizé, che lo ha anche, fra l’altro, coprodotto con il bravissimo e premiato protagonista Vincent Lindon, non assomiglia in realtà a nessuno dei due modelli principali che vengono in mente in Europa (l’Italia purtroppo ignora, o quasi, il genere) se parliamo di ‘film sul lavoro’. Non ha il furore ideologico di un Ken Loach, per capirci, che disegna, in modo straordinario, dei ‘quadri popolari’ di lavoratori in dura lotta per un mondo migliore, ma non è neppure simile, se non in parte, al cinema dei fratelli Dardenne, che ‘si incolla’ sui protagonisti di storie ‘sfortunate’ e ‘esemplari’ della nostra epoca e li segue nelle loro giornate con adesione totale, pur mantenendo uno stile sobrio e credibile.
‘La legge del mercato’ rinuncia invece in apparenza a qualsiasi pretesa estetica, la cinepresa si limita a stare fissa sui protagonisti della storia, spesso senza muoversi e rispettando i tempi ‘veri’ delle ‘piccole vicende narrate’: si sommano insieme, senza il consueto montaggio serrato e senza l’eliminazione dei famosi ‘tempi morti’ tipica del cinema, una serie di ‘quadretti illustrativi’ della vita e soprattutto del lavoro del nostro protagonista, Thierry, 51 anni, alle prese con la mille storture del mondo del lavoro oggi.
La scelta è quella di un assoluto naturalismo (viene persino in mente il ‘verismo’ di verghiana memoria, che però era una effettiva scelta estetica), senza la ricerca di alcuna ‘eleganza cinematografica’; quel che conta è raccontare con sobrietà totale una vicenda che ci aiuti a capire in che società stiamo vivendo e dove stiamo andando. Siamo quasi dalle parti del documentario o dell’inchiesta giornalistica, ma pur sempre adattati alle regole della fiction e del racconto.
Nessuna ‘intensità particolare’ neppure nella apprezzata recitazione di Lindon, che risulta efficacissima proprio per la rinuncia dell’attore (circondato non a caso da attori non professionisti che rendono quanto mai credibile la vicenda) all’istrionismo, in favore della scelta di interpretare in modo ‘naturale’ e senza ‘acuti’ un uomo qualunque, cui tocca di vivere tutte le difficoltà della nostra epoca.
Il lavoro - si diceva - ma se c’è, prima di tutto. Thierry, ancora troppo lontano dalla pensione per accettare la disoccupazione che gli è toccata in sorte a causa delle solite ‘ristrutturazioni aziendali’, per giunta padre di un figlio disabile (anche se cerca di vivere la sua condizione nel modo più’normale’ possibile), ce l’ha con gli ‘uffici’ francesi che dovrebbero aiutarlo a trovare una nuova attività, anche con opportuni corsi di formazione. “Voi ce li fate frequentare ma non ci dite che magari non serviranno a nulla” - protesta Thierry con un impiegato, che forse vorrebbe dargli ragione ma, come tanti altri, alla fine non può che ‘allargare le braccia’, per dire: ‘Che ci posso fare? Le cose vanno così’.
È lo stesso senso di fatalismo che Thierry si trova ad affrontare in molti altri casi: un selezionatore preferisce fargli il colloquio di lavoro via Skype ma in compenso ha molto da ridire su come abbia elaborato il suo curriculum, un’impiegata di banca gli prospetta senza tanti giri di parole l’eventualità di un suo decesso. Nessuno è poi così cattivo con lui, è questa società che non ha più alcun senso di umanità o solidarietà - sembra dire il regista Brizé - e persino la festa di pensionamento di una lavoratrice viene fatta senza convinzione dai colleghi, sembra quasi una pratica da svolgere, senza alcun entusiasmo.
Anche i tentativi di riportare le questioni sul piano politico e sindacale sembrano vani, Thierry capisce bene che l’invito a lottare per cambiare le cose sembra a sua volta una convenzione. “Vedete, non ho cambiato idea, non ho tradito - dice al collega che lo invita a solidarizzare per battersi ancora per migliori condizioni di vita e di lavoro - , è che io oggi non me la sento più di lottare”.
Thierry ha un permanente ‘broncio’ che non significa né tristezza né rabbia verso il mondo, solo disillusione, poco entusiasmo per tutto, rassegnazione all’impossibilità di cambiare più di tanto le cose.
Alla fine trova lavoro in un ipermercato e la sorte vuole che gli tocchi fare un’opera di sorveglianza quasi da ‘regista’, guardando con cura le mille telecamere che vogliono evitare ogni tipo di furto interno e osservando anche il comportamento di cassiere e addetti ai reparti: la scelta dell’azienda non è ‘simpatica’ né forse del tutto legale (i dipendenti sono di fatto sorvegliati in permanenza) ma come negare che l‘andamento dell’ipermercato dipenda anche dalla capacità di impedire furti e ‘furberie’ di ogni genere?
A mettere in difficoltà Thierry è però la ‘quotidianità’ con cui finisce per scontrarsi: i furti sono in realtà quasi sempre furtarelli, negati senza convinzione dai poveri diavoli che li hanno commessi e che non hanno soldi per risarcire l’azienda e pagare il maltolto; fra gli stessi dipendenti si annidano poi sì dei ‘disonesti’ ma le loro storie (che sono all’origine dei furtarelli) sono ordinarie vicende di miseria e di crisi.
Thierry resiste ma alla fine sembra arrendersi (fino a lasciare il campo, forse provvisoriamente, forse no, il film giustamente non ce lo dice) quando una dipendente infedele scoperta finisce per suicidarsi: la riunione di dirigenti e dipendenti per annunciare la tragedia è talmente fredda e disumana che spaventa. Il fatto fondamentale è proprio che tutto è riconducibile alla naturale ‘legge del mercato’, nessuno è così cattivo in particolare, tutti si arrendono ad una realtà sempre più spietata che sembra priva di alternative.
Un film, dunque, che fa riflettere, che racconta e non giudica, un utilissimo ‘apologo’ sull’epoca che stiamo vivendo.