Recensione: ‘Lincoln’

Il film di Spielberg, pur con la maestosità tipica delle grandi produzioni hollywoodiane, è soprattutto un elogio dell’arte della politica. Un tema non facile da far ‘digerire’ di questi tempi ma illustrato con maestria e sagacia.

L'entrata in scena è 'teatrale', come si conviene. La macchina da presa di Spielberg gira intorno a Lincoln seduto in poltrona e prima di virare con decisione per inquadrarlo di fronte, si ferma per un attimo al profilo, dandoci una visione del personaggio corrispondente a quella che abbiamo visto in molti monumenti (sculture soprattutto) dedicati a questo straordinario presidente americano. È come se Spielberg avesse voluto indicare allo spettatore la difficoltà di raccontare qualcosa di nuovo, di diverso rispetto alla visione formale che si ha di Lincoln, rispetto a come è stato raffigurato dagli artisti prima, dalla storiografia poi e infine dall'immaginario collettivo di una nazione, fino a diventarne un personaggio epico per definizione.
Eppure il film è importante per conoscere qualcosa di più, di alternativo, se non di inedito, su Lincoln, sedicesimo presidente americano e primo Repubblicano ad assumere la carica, alla testa del Paese negli anni-chiave della Guerra di Secessione, dal 1861 al 1865, rieletto dopo il primo mandato nel bel mezzo del conflitto, nel 1864, e assassinato poi brutalmente nell'aprile 1865 in un teatro di Washington da un fanatico attore sudista.
Spielberg, sulle orme del libro 'Team of Rivals: The political genius of Abraham Lincoln' di Doris Kearns Goodwin, sceglie di raccontare solo gli ultimi mesi di vita - e di mandato - del grande Presidente, quelli del 1865, che portarono alla fine della Guerra di Secessione e alla piena riunificazione degli Stati Uniti ma videro anche l'approvazione del famoso 13° Emendamento alla Costituzione che abolì definitivamente la schiavitù dei negri, problema all'origine del conflitto stesso.
Non una biografia di Lincoln, dunque, ma un omaggio alla fredda e lucida strategia politica del Presidente; gran parte del film, che pure dura due ore e mezza ed è pieno di personaggi, importanti o anche secondari, è infatti dedicata alla scelta di Lincoln di forzare la mano alla Camera dei Rappresentanti americana, dove pure non c'era una maggioranza repubblicana, fino ad ottenere una vittoria politica straordinaria con l'approvazione del nuovo 13° Emendamento (anche con una ventina di voti democratici), in un'atmosfera politica molto ostile e in un Paese non ancora maturo per una decisione così dirompente. Anche perché - soprattutto - il voto della Camera arrivava mentre la guerra era ancora in corso, con tutte le sue spaventose brutalità (Spielberg stavolta preferisce dedicare al tema poche scene, pur potenti e coinvolgenti, soprattutto quella di Lincoln a cavallo che passa attraverso montagne di cadaveri e ne resta colpito al punto di invecchiare improvvisamente di parecchi anni), e già si discuteva semiclandestinamente di come arrivare alla pace.
In sostanza, Lincoln perseguì in parallelo e in contemporanea i due obiettivi, la fine della guerra e la fine della schiavitù, in un intreccio politicamente acrobatico, che però riuscì con determinazione a portare a buon fine.
L'intento di Spielberg sembra essere quello di evitare stavolta la strada della retorica (o dell'epica) che molti gli rimproverano e di puntare tutto sull'aspetto di sagacia e grandezza politica di Lincoln. Ma l'effetto è quello di celebrare le virtù (non i vizi, pur non nascosti ed anzi evidenziati quasi senza censure) della politica in quanto tale, arte del compromesso e preziosa guida per uscire dalla brutalità delle situazioni e dei problemi, non nel modo migliore ma nel modo migliore possibile. Un bagno di realismo che fa a pugni con i seguaci dell'ideologia 'dura e pura' e che viene celebrata nel film con la faticosissima scelta del politico repubblicano Thaddeus Stevens (l'ottimo Tommy Lee Jones) che dopo mille dubbi e tormenti finisce per dire alla Camera quel che non pensa, pur di sorprendere gli avversari e di conseguire l'obiettivo dell'approvazione dell'Emendamento, che poi si fa dare in originale per mostrarlo come una reliquia alla governante-amante di colore.
Questo e altro, perché l'approvazione dell'Emendamento costa anche un po' di corruzione a singoli democratici e addirittura una “bugia” al Parlamento (ovvero un grave reato, nella concezione americana) da parte di Lincoln, che trova però la 'formula' compromissoria che ne attenua la portata (“per quel ne so, non ci sono oggi a Washington inviati sudisti venuti a trattare la pace”, scrive alla Camera, come a prendere le distanze in anticipo dalla sua menzogna 'a fin di bene').
Non è necessario essere d'accordo con questa celebrazione della politica per ammirare l'abilità con cui Spielberg mette in scena le sedute della Camera, rappresentata realisticamente come una taverna di pessimo ordine, e le mille miserie di politici e politicanti (al cui confronto Lincoln è appunto un 'gigante'), illustrate fin nei dettagli. Non sappiamo semmai quanto questo tipo di narrazione così 'americana' (pragmatica dunque per definizione) possa conquistare il pubblico europeo, italiano in particolare, in un Paese in cui la politica viene semmai vista, in molti casi, da una parte come un modo per arricchirsi o per perseguire i propri soli interessi, dall'altra come un 'male' assoluto in quanto tale.
Il film, al di là del tentativo di 'smarcarsi' dalla retorica del personaggio, è comunque costruito con la dovuta 'maestosità' che porta dritto alle vittorie agli Oscar: Lincoln - e non solo lui - parla sempre con un linguaggio 'ispirato', in questo caso forse in modo meno realistico del dovuto, e appare come un Presidente sempre conscio dei doveri nei confronti del suo Paese, di cui si fa carico soffrendone personalmente (fino a sacrificare la sua stessa vita, si lascia intendere, anche se il film nemmeno mostra l'assassinio) e, pur raccontando ai collaboratori anche qualche storiella sdrammatizzante, non viene mai meno al compito di perseguire ad ogni costo il bene comune. Ne soffre la stessa famiglia perché i rapporti con la moglie Mary (un'eccellente Sally Field) sono complicati dalle tragedie familiari legate anche alla guerra e il fortissimo carattere della consorte rende tutto quasi impossibile. La fatica di governare (ma anche di vivere) di Lincoln è raffigurata dalla stessa costante difficoltà a raccogliere tutto il suo altissimo corpo al momento di alzarsi in piedi, una situazione fra le tante che l'attore inglese Daniel Day-Lewis si impegna a raffigurare con maestria e partecipazione.
Ci sono poi la citata maestosità della produzione, che vede impegnata la 20th Century Fox in prima fila ma poi anche Dreamworks, Imagine Entertainment, Amblin Entertainment, The Kennedy/Marshall Company, Partecipant Media e altro ancora, la bella fotografia di Janusz Kaminsky che rende bene anche l'epoca dei lumi e una cura della confezione che non si presta a nessuna critica.
Curiosa la scelta della voce di Lincoln, che viene presentata anche in originale come particolare, un po' 'chioccia' e sconcertante, quasi incerta e insignificante, non certo 'epica'; da noi si impegna in un doppiaggio corrispondente Pierfrancesco Favino, affatto riconoscibile e a prima vista a sua volta 'insignificante' ma alla fine efficace: Favino punta sul mestiere e - sembrerebbe - sul riferimento a un doppiatore mitico, Ferruccio Amendola, di cui evoca qualche tono e modalità.
In chiusura, 'Lincoln' è un capolavoro? Per alcuni magari sì, mentre per altri è un film troppo freddo e 'americano' per piacere in pieno anche nel resto del mondo, soprattutto da noi. Ma un film da vedere sicuramente 'Lincoln' lo è, un'opera che di certo non fa rimpiangere il prezzo del biglietto.

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