Recensione: ‘L’intrepido’

Gianni Amelio stavolta sceglie la poesia per raccontare a modo suo la realtà del lavoro di oggi. Può contare su un formidabile Antonio Albanese, che, novello Charlot, si aggira da estraneo ma senza rancore nella Milano di oggi.

Il film di Gianni Amelio, presentato a Venezia, non è stato fra gli italiani premiati e ha avuto recensioni di tipo assai diverso fra loro: ad alcuni è piaciuto, ad altri è sembrata un'opera irrisolta, fragile, incerta nei toni e nei fini. Sarebbe facile collocarsi a metà fra le due opinioni opposte e cavarsela così, a buon mercato; diciamo invece che il film, a suo modo, è gradevole e godibile, anche se forse si tratta effettivamente di un'opera esile, un po' fragile.

Perché tutto, davvero tutto, nel film pesa sulle spalle di Antonio Albanese, in scena dall'inizio alla fine con una ammirevole dedizione a un personaggio irreale, poetico, spaesato in questo mondo impazzito, eppure forte e tenace, assai più scaltro di quanto appare e capace alla fine di tirare avanti comunque. Albanese si identifica totalmente in lui, ammicca persino allo spettatore nel finale e Amelio può solo lasciargli campo libero, seguendolo passo per passo nelle sue peripezie.

In questo senso 'L'intrepido', titolo vagamente ironico - come un piccolo fondo di ironia c'è nel film - , non va oltre, non cerca di raccontare più di tanto la società di oggi né di fare satira, non è un'opera di critica sociale. Ci mostra un Albanese iper-protagonista che sceglie una sua vita 'folle' per i canoni correnti, ignorando il valore sia della carriera che del denaro e cercando semmai di sopravvivere senza compromessi, in una sua area di poesia, onestà e dolcezza, in attesa che magari il figlio riesca a trovare la sua dimensione di musicista affermato, 'vendicando' la sua precaria sorte.

La trama è nota: Antonio Pane, più di 40 anni, perso il lavoro fisso che aveva e abbandonato anche dalla moglie, ha scelto (o si è ritrovato) a fare nientemeno che il 'rimpiazzo', vale a dire che ogni giorno (o quasi) fa un lavoro diverso, sostituendo chi si assenta per forza o per motivi suoi. Dal baby sitter al badante, dal portapizze al muratore, a tante altre varianti, Antonio non si preoccupa più di tanto (anche se poi si ribella) di affidarsi a un losco personaggio, che lo chiama di volta in volta per i rimpiazzi e vive la situazione non tanto con rassegnazione ma con un fondo di allegria.

'I lavori mi piacciono tutti' - dice candido, ringraziando quasi la sorte, che lo porta a fare tanti incontri diversi, tante esperienze differenti fra loro. E bisogna vedere come si diverte con la macchina da cucire, dimostrando alle attempate sartine cui aveva portato la pizza che lui con quell'arnese se la cava alla grande, andando anche 'sempre diritto nel cucire'.

Non si nega tuttavia i concorsi, anche quelli, affollatissimi, dove i vincitori - si sa - sono già scelti o saranno al 90% i raccomandati di turno. Qui la sorte lo aiuta ancora, dandogli modo di conoscere e aiutare una giovane ragazza che vive alla giornata come lui ma con un fondo di disagio e disperazione molto più forte di lui. Potrebbe essere una poetica storia d'amore, nonostante la differenza d'età, ma Antonio non ce la fa: la ragazza alla fine, in preda allo sconforto, sceglie la morte e lui non si dà pace.

Tutto avviene sullo sfondo di una Milano (prevalentemente la zona attorno alla stazione Garibaldi, ma anche molte altre) molto ben fotografata, una città assurda e in preda a una folle modernità dove non manca la crudeltà, ma poi neanche così brutta, anzi 'piacevole': un luogo che in fondo può anche essere affrontato e 'vissuto' da un personaggio del tutto 'sui generis' come Antonio.

Il film, si diceva, può essere visto con piacere e in qualche modo anche con un certo gusto, persino con divertimento, se si accetta il suo tono lunare, sopra le righe, autenticamente poetico (della ricerca di una poesia nella Milano di oggi, diciamo) e alla fine lascia in bocca non solo tristezza ma anche un sapore gradevolmente amarognolo, più che di indignazione, per la triste sorte di Antonio. Ma - si diceva - questo è anche un po' il limite di un film che non persegue né la denuncia né la satira, aderendo alla tenera scelta di Antonio, che non chiede nulla a nessuno ma sopravvive con dignità e candore in un mondo (e in un modo) tutto suo.

Restano nella memoria alcune scene indovinate. Quella in cui Antonio, finito a fare anche il venditore di rose, si imbatte nella moglie, che fa nuova coppia a cena con un facoltoso uomo d'affari (una convincente piccola apparizione di Sandra Ceccarelli); quella del concorso pubblico, dove si vede a sorpresa comparire Bedy Moratti; la tenera e aperta faccia del figlio sassofonista di Antonio, che è in fondo come lui e forse, pur molto bravo, carriera non la farà mai. L'attore è un esordiente, come esordiente è l'interprete della ragazza che Antonio incontra e finisce per amare, pur non sapendo quasi niente di lei.

Sono queste e altre le cose più indovinate del film, che magari nel complesso non è immune da qualche critica ma ha anche molte qualità e alla fine lascia davvero un buon ricordo.

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