È un film davvero singolare questo ‘L’Oriana’, singolare perché prima di tutto è stato ricavato ‘condensando’ in poco più di 100 minuti le due puntate della miniserie che sarà possibile vedere fra pochi giorni su RaiUno. Poi perché ha preceduto per due soli giorni in sala la fiction Rai stessa, una mossa singolare e forse inedita che tuttavia può anche fungere da buon ‘trampolino promozionale’.
Ma la vera anomalia - della serie ‘le imprese impossibili’ - è quella di cercare di raccontare nel breve tempo di una fiction e poi in quello ancor più breve di un film una vita ‘pazzesca, sempre al limite’ verrebbe da dire, come quella di Oriana Fallaci, grande giornalista, grande scrittrice, testimone come forse nessuno dei grandi drammi internazionali dei decenni passati, donna di grande intelligenza, intransigenza, temperamento e dalle passioni incontrollabili, negli ultimi anni profetica (in parte), visionaria e quasi mono-maniacale oppositrice dell’Islam e del mondo arabo in generale.
Una quantità mostruosa di materiale doveva essere pertanto condensato in un racconto che si è infatti rivelato ben presto breve per tutte le emozioni che voleva mostrare, anche se la sceneggiatura degli abili Rulli e Petraglia evita il peggio, illustrando perlomeno i punti essenziali.
Ecco allora che vediamo Oriana, già anziana e malata, che - un classico nel capo della fiction - finisce per raccontare la propria vita a una giovane inconsapevole che le è stata mandata accanto per assisterla per gli archivi, anche se il rapporto fra le due donne non può non essere complicato (“non concedo interviste” - avverte Oriana, che di interviste ne ha fatte tante, rivolta alla giovane, che affascinata da quella vita, vorrebbe forse intraprendere una carriera giornalistica di cui non sa ancora nulla).
Insomma si parte, manco a dirlo, con un flashback, che ci riporta alla giovane, bella e già spigolosissima Oriana che, eterna sigaretta alle labbra, fa già la giornalista (nulla ci viene detto della sua famiglia, infanzia e gioventù) e soffre la vita di redazione e la routine delle interviste ai divi del cinema che le commissionano.
Vorrebbe essere sul luogo degli eventi, invece, l’irrequieta Oriana e non si può alla fine non accontentarla, tanto che finisce in Vietnam a raccontare una guerra terribile, mal sopportata dai comandi americani, che però non riescono a frenarne l’esuberanza e la passione. Oriana fa amicizia con un inviato francese altrettanto intraprendente, con cui non poteva non nascere una storia d’amore, nonostante lui fosse già sposato. È solo l’inizio delle traversie, anche nel campo sentimentale.
Pochi anni dopo Oriana è già alle prese con il regime dei colonnelli greco e qui c’è l’incontro fatale con Alekos Panagulis, eroe della resistenza ellenica, irruento quanto lei ma anche grande condottiero di un popolo, di cui diviene l’amante appassionata, creando al contempo un rapporto sentimentale complesso e contraddittorio, da cui potrebbe nascere anche un figlio, che però Oriana perde, con grande dolore.
Al contempo il rapporto con Alekos si rivela pieno anche di spine, perché lui è un donnaiolo impenitente, un uomo senza compromessi che si ritiene sempre nel giusto e invincibile e finisce infatti per lasciarci la pelle. Persino lei, che quanto a caratterino non è certo da meno, soffre l’esuberanza di lui e i due si prendono e si perdono, nella migliore tradizione degli amori tormentati. In più l’amato lavoro preme e una come Oriana non può non amare anche l’indipendenza e la libertà.
Dopo Panagulis, la carriera prosegue ma per Oriana è come se si fosse spenta la parte più intensa della vita. Giornalista e scrittrice ormai famosa anche a livello internazionale, la Fallaci non trova più guerre terribili da raccontare, fa sempre l’inviata ma senza la spinta morale e passionale di un tempo.
Finché, in un altro momento cruciale della storia mondiale, ingaggia con la nuova ‘star’ Khomeini un terribile duello. Ottiene un’intervista dal neo-insediato presidente iraniano ma lo sfida togliendosi il chador durante il colloquio e gli contesta la mancanza di libertà, l’integralismo, soprattutto l’oppressione delle donne persiane. È l’inizio di quella ossessione verso il mondo arabo e islamico di cui si diceva all’inizio e che il film (della fiction presenteremo una nuova recensione fra pochi giorni) evita di illustrarci nei dettagli, forse perché troppo problematica, difficile da illustrare nella sua asprezza senza alcuna sfumatura, persino dolorosa.
L’ultima immagine che vediamo è allora quella di Oriana, rifugiatasi a New York, che osserva allibita alla finestra il crollo delle Torri Gemelle, un’occasione per incrementare quella ‘ossessione anti-islamica’ che ne caratterizza la parte finale della vita.
Fin qui la trama. Come si vede, trovare il modulo narrativo migliore per una storia così straordinaria da condensare in tre ore circa (e anche meno per il film) era impresa delle più complicate. Il film ci prova e alcune parti sembrano davvero riuscite, come la parte vietnamita, che ci consegna una visione di quel Paese davvero bella e abbastanza inedita, anche per chi ha vissuto e ricorda bene gli anni dei Vietcong e di Ho Chi Minh.
Bellissima e toccante, poi, la scena dell’orfanotrofio, dove una splendida bambina dagli occhi grandi e di grande dolcezza tenta la giornalista tutta d’un pezzo Oriana, che vorrebbe solo raccontare, ma soffre la situazione, perché non può adottarla, come le suore le propongono con insistenza.
Purtroppo il film va un po’ in calando: già la storia con Panagulis (un simpatico Vinicio Marchioni) è illustrata con meno efficacia e soprattutto manca un racconto un po’ più dettagliato (che a noi giornalisti sembra importante, naturalmente) su quelle redazioni che Oriana ogni tanto pur frequentava, su quel mitico ‘Europeo’ della Rizzoli che fu a lungo la casa di Oriana, su quel giornalismo, su quei giornalisti.
Nel finale appunto alla fase ‘rabbiosa’ di Oriana si accenna solo mediante la burrascosa intervista a Khomeini. Troppo poco per un periodo abbastanza lungo e complesso, nel quale per lei non mancarono contestazioni, odi, amarezze.
Insomma, un’opera riuscita a metà, anche se le attenuanti sono tante e l’impresa era di quelle in qualche modo perse in partenza. Il film è stato prodotto da Fandango con Rai Fiction, la regia è di Marco Turco, l’interprete principale è Vittoria Puccini, toscana come Oriana ma così diversa fisicamente e caratterialmente da lei. Vittoria si impegna con adesione nella quasi impossibile impresa e non la si può biasimare ma anche qui forse si poteva fare di meglio, ovvero trovare un’attrice più ‘giusta’ per una simile ‘impossibile’ interpretazione.
In chiusura una scena che resta impressa. Quasi nel bel mezzo della guerra in Vietnam, vicina ai soldati americani, Oriana si butta, con la solita sigaretta in bocca, a pigiare i tasti della macchina da scrivere. L’immagine è un po’ surreale e l’ufficiale americano glielo fa notare. ‘Ma cosa sta facendo’? - grida a Oriana. E lei senza scomporsi: ‘Sto scrivendo, è il mio lavoro’.
Vorremmo proporre la scena a mo’ di epitaffio di un film che perlomeno ‘ci prova’ a raccontare una così, pur senza magari riuscirci in pieno.