Recensione: “Reality”

Il nuovo film di Matteo Garrone è dedicato a una ‘vittima della sindrome da Grande Fratello’: un pescivendolo napoletano vive per entrare nella Casa ma finisce per impazzire. Sullo sfondo c’è una Napoli amatissima, dai mille colori.

La prima cosa che ti viene in mente è che, ormai, 'siamo fuori tempo massimo': quest'anno il famigerato 'Il Grande Fratello', vittima di se stesso e delle sua smisurate ambizioni (di durata e di potenza), non è nel palinsesto di Canale 5, per la prima volta da parecchi anni. Quindi, denunciare le storture e persino la follia che un programma così può provocare nella gente meno 'attrezzata culturalmente' per resistergli e costruirci sopra un film dal titolo 'Reality' ti sembra, a prima vista, una 'provocazione efficace' qualche anno fa, oggi magari meno 'attuale', nel momento in cui la gente sembra voler ignorare un po' di più le mille seduzioni della Casa.

Poi fai qualche considerazione in più sulla situazione dei reality show - in crisi forse solo temporanea - , pensi che con ogni probabilità 'Il Grande Fratello' sarà di nuovo in onda nella prossima stagione, che parallelamente infuriano i talent show, magari non meno nocivi, e cominciano a venirti dei dubbi che un film così sia davvero superfluo. Infine, vedi che in una trasmissione Mediaset si parla del film di Garrone facendolo vedere e commentare dagli ex personaggi del 'Grande Fratello' e allora concludi che sì, magari, questo film era meglio farlo in ogni caso, a tutela dei milioni di 'aspiranti star della Tv' che poco o nulla sanno fare ma vogliono ugualmente - istruiti dalla Tv stessa - 'comparire', in cerca di fama, soldi e notorietà a buon mercato.

Fa tanta tenerezza (e la regia di Garrone lo segue da vicino con grande affetto e 'compassione') il pescivendolo Luciano (il bravo Aniello Arena, detenuto-attore del carcere di Volterra), che dopo un provino a Cinecittà al Grande Fratello, crede di aver fatto colpo e, nell'attesa della 'telefonata della vita' (“che immancabilmente arriverà”) comincia a vedere intorno a sé solo 'quelli della Televisione': vende il negozio, si ritira in casa a guardare proprio il 'Grande Fratello', vaneggia di 'inviati della Tv che si aggirano intorno a lui' e, preso da irrefrenabile sindrome da video, comincia a regalare l'arredo di casa a poveri e meno poveri che si affrettano a raccogliere al volo l'inaspettato 'ben di dio' loro offerto. La moglie lo lascia (salvo pentirsi poi), i parenti finiscono un po' tutti per preoccuparsi per questo impazzimento incontrollabile, gli amici e la comunità del suo quartiere più che allargare le braccia non possono. Ma Luciano finirà per vendicarsi di tutti, entrando di soppiatto nella Casa di Cinecittà e finendo lì per ridere di gusto, almeno dell'impresa compiuta.

Questa la trama e questa la tesi di fondo, che non è appunto così 'fuori tempo' come potrebbe sembrare. Ma poi ci sono le qualità visive del film di Garrone che sono di prim'ordine. 'Napule è mille culure' - cantava Pino Daniele e Garrone si incarica di dimostrarlo.
Si parte già con uno splendido matrimonio in una straordinaria carrozza d'epoca e si prosegue così, anche nelle situazioni più sgradevoli (le truffarelle per 'tirare a campare'), con una città fotografata (dal compianto e bravissimo Marco Onorato, purtroppo scomparso nel giugno scorso) con grande amore e senza neppure tanta disperazione. Sembrerebbe che in questo Garrone abbia voluto staccarsi completamente dal mondo di Gomorra, grande film ispirato a un libro di enorme successo ma pieno di orrori e di situazioni estreme, di un mondo senza pietà.

Qui Napoli è anche tentativo di solidarietà collettiva, persino borgo (e non fredda e ostile metropoli) per certi aspetti è piena di vita e sfondo impareggiabile per qualunque vicenda umana. Questa Napoli è anche un prodotto d'esportazione e sarà per questo che il film è così piaciuto anche al Festival di Cannes.
La regia di Garrone è a sua volta delicata, affettuosa, segue i personaggi con calore e amore. Probabilmente il film (distribuito dalla 01 della Rai e prodotto anche da Fandango e Archimede) vuole essere anche un omaggio alla Napoli del cinema, quella che tanto ha dato a sua volta all'Italia (da De Sica a Sofia Loren, a De Filippo, a tanti altri, persino al 'sognante' Massimo Troisi), e in ogni caso ti conquista, fotogramma dopo fotogramma. In più ha i toni della commedia, di una amara commedia umana.

Ma anche in quella Napoli così amata e colorata si sono innestati i nuovi mostri: il consumismo, i reality, la degenerazione della Tv, il vuoto esistenziale riempito dai centri commerciali, dai divi fasulli del piccolo schermo, che tutto corrompono (persino i corpi, spesso sfatti e inutilmente obesi). Alla fine c'è l'idea che Napoli come l'Italia non possano reggere a questo nuovo flagello: la smania del successo distrugge quasi tutto, fin quasi a uccidere la realtà e a imporre un luccicante, fasullo e uniforme 'sogno collettivo'.

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