Tentiamo, per la prima volta su questa newsletter, la recensione di un film ‘importante’ in programmazione attualmente nelle sale italiane. È ‘Romanzo di una strage’ di Marco Tullio Giordana.

'Romanzo di una strage' ha molti meriti. Prima di tutto il titolo, che è onesto. Onesto perché la pretesa non è quella di ricostruire con la cura e lo scrupolo di uno storico le vicende di piazza Fontana e dintorni, anche se anche questo sarebbe già di per sé un merito: quei fatti sono infatti il punto di svolta e il primo 'buco nero' per l'Italia, che da quel momento in poi vivrà una fase tragica e lunghissima della propria storia, alle prese con bombe, stragi, terrorismo, attentati, azzoppamenti e omicidi, una scia infinita di sangue e di terrore che ha fatto sprofondare il Paese, che non è peraltro riuscito che in pochi casi a chiarire i fatti e le responsabilità degli eventi.
Ecco dunque un secondo merito: affrontare proprio quel momento della storia nazionale, una vicenda convulsa e complicatissima, che mille indagini, processi e articoli giornalistici non hanno chiarito. Ma bisognava riparlarne, proprio perché da lì è partito tutto e ripensare a quei fatti è doveroso per chi voglia sapere anche oggi in che Paese vive, anche per i giovani, dunque.
Ma - si diceva - l'intento - ed è un merito in rapporto appunto all'onestà del titolo e a quel che ci si proponeva - non è ricostruire da storici le vicende di piazza Fontana ma delinearne i contorni, facendo emergere due-tre personaggi-simbolo, quasi le vittime sacrificali di un mondo, di un Paese e di un sistema impazziti, dove l'odio stava prendendo il sopravvento su tutto e la vita umana poteva allora essere sacrificata a 'fini superiori' o a presunti nobili ideali.
Romanzo di una strage, dunque, davvero, anche se la ricostruzione degli ambienti, dei luoghi e dei fatti è attenta e scrupolosa, se sia gli studenti che, sul fronte opposto, i poliziotti sono credibili e chi ricorda quei momenti e quelle situazioni, che magari ha vissuto direttamente, si ritroverà davvero, non escludendo persino un filo di nostalgia. Bene hanno lavorato sia il regista Giordana che gli sceneggiatori Rulli e Petraglia, ben sorretti dal produttore Tozzi, con Cattleya e il sostegno di Rai Cinema e 01 per la distribuzione.
Dalla storia corale, su cui appunto non si insiste troppo, anche se le storie vengono raccontate tutte (dal tassista Rolandi a Freda e Ventura, da Giannettini ai servizi segreti deviati, fino persino all'infiltrato Merlino e a Feltrinelli), emergono i personaggi: non Valpreda, un po' a sorpresa (viene raffigurato solo in senso negativo, come tendente alla violenza e quasi odiato da Pinelli, e questo è forse un limite del film), ma tre figure precise: Pinelli, appunto, Calabresi e, sul piano politico, un Moro ministro degli Esteri che sembra a sua volta una vittima designata degli eventi (ci si riferisce evidentemente al suo successivo rapimento e uccisione), alle prese con ministri ambigui e tendenti al golpe, con un Saragat che voleva sospendere la Costituzione e con un Rumor in preda agli eventi.
Ma se il riferimento a Moro è forse un po' forzato, le vicende personali di Pinelli e Calabresi sono il centro vero del film. Pinelli ci fa un figurone: buono, generoso, idealista e onesto, si trova involontariamente al centro di una vicenda troppo grande per lui, che finisce ovviamente in tragedia. E su quel 'suicidio' nel cortile della Questura di Milano il film si diffonde in particolari, senza voler accusare nessuno di preciso, peraltro, perché in effetti cosa sia successo davvero non si è mai capito.
Di certo qui viene assolto Calabresi, che pure fu al centro di una terribile vicenda di odio e di vendetta, anche stavolta considerata (nel film) troppo grande per lui: Calabresi non era nella stanza quando Pinelli morì e poi, immerso in un ambiente sordido dove c'erano troppi silenzi e troppe manovre di depistaggio, fa quasi una sua indagine, che culmina con la scoperta di misteriosi depositi di armi nel Triveneto, su cui però era d'obbligo mantenere il silenzio. Alla fine Calabresi viene ucciso e il film si chiude su questa seconda vittima designata.
Ma prima a Calabresi stesso viene fatta enunciare la famosa tesi delle 'due bombe' a piazza Fontana, che tanto ha fatto discutere in questi giorni. Qui l'impressione che si ha è che un po' a tutti sia sfuggita la mano; gli sceneggiatori e il regista erano alle prese con un libro di un autore-giornalista sconosciuto da cui hanno preso spunto per il film ma che al contempo volevano contestare, anche perché confonde le acque su tesi ormai quasi 'storiche': le manovre dei servizi e della Nato per forzare la tesissima situazione politica in Italia dopo l'autunno caldo del '69, anche a costo di stragi, la forzata attribuzione delle colpe per le stragi stesse alla sinistra anarchica (e così, per estensione, alla sinistra tutta), gli ambienti di estrema destra esecutori materiali dei crimini.
Su tutto questo il libro aveva fatto confusione e Giordana cerca allora di confutare le sue tesi, finendo però per avallarne una che sembra a sua volta romanzesca (la doppia bomba, appunto). Ma forse la pecca vera è volersi ispirare a un libro per contestarlo, un'operazione ardita già come enunciazione.
Resta la bravura di un Favino quasi commovente nei panni di Pinelli e l'impegno di Mastandrea nell'impersonare Calabresi, restano una bella sceneggiatura e una scelta stilistica che alla fine convince, pur non trattandosi, come detto, di una rievocazione storica a tutto tondo.
Quello era un altro film, probabilmente, questo è un romanzo (filmato) di una strage, anche se questa era una sfida molto difficile già in partenza. Ma alla fine la sfida sembra in buona misura vinta.