Si parla sempre troppo poco dell’area balcanica e della ex Jugoslavia in genere, anche nello stretto campo cinematografico. Solo molto sporadicamente arriva nelle nostre sale qualche film proveniente da Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia e altre zone di questa fetta così ‘spinosa’ e storicamente martoriata d’Europa, anche se si sa che la cinematografia qui ha una tradizione storica da non sottovalutare. Al tempo stesso le tragedie e le guerre che ancora di recente hanno colpito la ex Jugoslavia hanno fornito ‘materia viva’ a diversi film di un certo interesse, anche se non sempre si è trattato di pellicole di produzione originaria dell’area balcanica.
Giunge allora opportuno, a colmare parzialmente le nostre lacune, questo bel film del croato Dalibor Matanic, che ci racconta la storia dell’amore fra due giovani, alle prese con l’odio etnico in varie fasi della recente storia di un villaggio in cui convivevano pacificamente prima serbi e croati e che - parrebbe da alcuni riferimenti - non è lontano da Spalato. Non siamo però sulla costa croata ma in una zona più interna, dove tuttavia quello che sembra essere un lago costituisce un’area di socializzazione e di piccolo grande divertimento per tutti: serbi e croati si ritrovano tutti al classico chiosco sulla riva, che con la bella stagione è un approdo inevitabile per tutta la popolazione locale.
Il primo ‘atto’ di questo film di oltre due ore (assolutamente non c’è però noia) inizia così, raccontandoci la vita semplice di una piccola comunità che nel 1991 viene sconvolta dall’odio etnico che dilaga in tutta la ex Jugoslavia. C’è aria di guerra, croati e serbi iniziano a guardarsi male e a odiarsi, gli uni parlano degli altri sempre e solo come ‘quelli’, come in un inarrestabile fiume in piena compaiono divise, armi, conflitti, conditi da antichi rancori, da odio etnico che pareva sepolto e invece riemerge carsico, potentissimo. Possono due giovani, lui croato, lei serba, amarsi liberamente in questa situazione? Non possono, ovviamente, e nelle stesse famiglie d’origine l’odio si insinua potente, fino alle estreme conseguenze, perché l’amore resiste fino all’ultimo, corre, inarrestabile a sua volta, verso le estreme conseguenze.
Nel secondo capitolo gli stessi attori del primo ‘atto’ interpretano altri due personaggi, completamente diversi però (la continuità del film è data dagli stessi attori e dalla stessa tematica). Siamo nel 2001 e la guerra, finalmente finita, ha però distrutto tutta l’area. Madre e figlia serbe scelgono, forzatamente o meno, di rientrare nella loro abitazione ma la trovano devastata, persino simbolicamente (si è persa anche ‘l’anima’ di quell’edificio un tempo accogliente e ‘intimo’), dal conflitto: ci vuole un uomo ‘di fatica’ per rimettere le cose a posto e la madre trova un bravo ragazzo croato, molto capace e attivo, che si dà da fare a dovere, tanto che la madre ci fa un pensierino per ‘sistemare’ la figlia. Ma la figlia si è nutrita a sua volta di odio etnico e sopporta con enorme fatica la presenza del ragazzo croato, non vuole mangiare a tavola con lui, spera che se ne vada presto, per continuare liberamente la sua giovane vita, già a quell’età solitaria e rancorosa.
Anche qui però l’amore si insinua pian piano, con enorme fatica, spesso sconfitto dalle circostanze ma mai distrutto del tutto.
Nel terzo capitolo di ‘Sole alto’ siamo ovviamente ancora dieci anni dopo, nel 2011, con la guerra relegata ormai fra i ricordi; non a caso le cose stanno cambiando e turismo e divertimento sono la nuova frontiera della zona; i giovani provano a vivere la loro vita spensierata, fra rave party e ozi estivi. Ma uno di loro (il nostro solito amico Goran Markovic, perchè gli attori - non i personaggi - sono ancora gli stessi e con lui c’è quindi ancora Tihana Lazovic) ha un motivo particolare per essere lì con gli altri: ha un passato che lo tormenta, perché ha amato qualche anno prima una ragazza serba che abita sempre lì nelle vicinanze e che gli ha dato anche un figlio; il rapporto si è poi consumato e dissolto, preda degli odi e dei rancori etnici, ma ecco che riaffiora, sempre con grande fatica, e stavolta sembra lasciarci anche qualche speranza in più in un futuro migliore.
Il film è essenziale ma molto convincente, i rapporti difficili fra le persone della stessa comunità emergono più dagli sguardi, da qualche gesto violento e irrazionale, che dalle argomentazioni; i comportamenti valgono più delle parole, sempre difficili qui da pronunciare. L’odio, in eterna lotta con l’amore, si insinua nelle famiglie, nelle generazioni, nei villaggi, lasciando tuttora strascichi pesanti.
Matanic è molto bravo nel raccontarci le cose con poche parole, appunto, e con pochi personaggi, con ‘piccole cose’ che diventano grandi simboli. Muove la macchina da presa quasi impercettibilmente ma ha un linguaggio essenziale ed efficace; punta su qualche particolare (il lago in cui tutti si buttano, per esempio, la gioia di una casa comune in cui amarsi che però sembra un obiettivo quasi irraggiungibile) per farci capire un po’ tutto. Bravi e appassionati i due giovani attori dei tre ‘capitoli’.
Un film d’autore di valore, notato già a Cannes, che ci apre di nuovo le porte su una parte importante d’Europa, vicina all’Italia ma ancora per noi per la gran parte da esplorare e da capire. Il fatto che la pellicola sia poi una coproduzione che mette di nuovo insieme Slovenia, Croazia e Serbia è un altro segnale di piccola grande speranza.