Recensione: ‘To Rome with love’

Un Woody Allen diverso dal solito e in tono ‘minore’ che ha profondamente diviso la critica. Ma, preso per il verso giusto, ‘To Rome with love’ può essere divertente e godibile.

Raramente un film, specie di Woody Allen, ha diviso così profondamente la critica italiana e non è certo frequente, in generale, che si siano registrati pareri così radicalmente opposti: per alcuni, Woody Allen almeno in questo caso, mentre girava, era “cotto” - più o meno - e per parlare dell'Italia si è affidato a stantii stereotipi; oppure, all'opposto, per altri, il film è una raffinatissima dissertazione sul nostro Paese e dietro l'apparente banalità nasconde riflessioni troppo intelligenti per essere colte da una critica ottusa.

Non ha invece avuto dubbi il pubblico, che ha tributato un grande favore al film, da tempo al vertice delle preferenze al botteghino.

Vorremmo cercare di uscire da queste posizioni intransigenti per provare a cogliere il film per quello che è: un tentativo di Woody Allen di trarre nuova ispirazione da un Paese noto agli americani come l'Italia, dopo aver illustrato a modo suo Londra, Parigi e Barcellona.
Ma sarebbe sbagliato cercare un saggio sociologico e di costume - come alcuni pure hanno fatto - sulla 'romanità', se non sull'italianità, notando poi come per certi versi Woody finisca per fare riferimento a modelli ormai sorpassati di 'italiano tipico'.

Di Roma, diciamolo, c'è un po' di scenografia, i vicoli, le piazze, le aree archeologiche, il Colosseo, ma non molto di più e c'è persino poco riferimento al 'romano di Roma' per eccellenza, Alberto Sordi. Qui l'italiano, se non il romano, tipico è identificato in Roberto Benigni, che però palesemente romano non è, e si produce in un personaggio grigio e banale che raggiunge improvvisamente la celebrità senza motivo, stile 'Grande Fratello' o giù di lì, e si pensa magari a 'Johnny Stecchino', qualcosa che gli americani conoscono.

Per il resto: una coppietta in viaggio di nozze che viene da Pordenone (chissà perché), un giovane studente americano a Roma (nientemeno che Jesse Eisenberg con la stessa acconciatura di 'The social network', così pensi subito a Zuckerberg e a Facebook) diviso tra fidanzata e sensuale e intrigante amica della fidanzata con tanto di Alec Baldwin che rivede se stesso vent'anni prima a Roma e gli si palesa accanto spesso, a mo' di presenza psicanalitica, o di 'fantasma a Roma' (come nel recente film di Ozpetek); una giovane americana che si innamora di un ragazzo italiano 'comunista' (o giù di lì) e che, convocati a Roma i suoi genitori (lui è proprio Woody Allen) per preparare il matrimonio, scopre che il padre di lui (che ha una ditta di pompe funebri) ha qualità canore (liriche) eccezionali ma solo sotto la doccia.

Dov'è la romanità in tutto ciò? Ce n'è dunque poca, mentre ci sono molte situazioni tipiche di Woody Allen trasportate a Roma o a cavallo tra i due Paesi. In realtà il riferimento di Woody sembra molto di più non l'Italia o Roma bensì il cinema italiano, unito al suo e a quello americano. L'apertura sul pizzardone di Piazza Venezia (specie che riteniamo estinta, peraltro) che promette di raccontare storie romane sembra un riferimento ai famosi 'film a episodi' che hanno caratterizzato alcune stagioni del cinema italiano. E infatti nel film ci sono appunto diversi episodi distinti e c'è il cinema nel cinema, con la sposina Alesandra Mastronardi (simpatica la sua interpretazione, quasi da giovane attrice incredula di trovarsi in un film del grande Woody) che si innamora di un divo manigoldo interpretato da Antonio Albanese (e qui ti viene in mente anche 'Qualunquemente').

Il paese del bel canto è poi presente con il tenore Fabio Armillato (divertente la sua interpretazione) che si esibisce negli agognati (da Woody Allen) 'Pagliacci' ma solo sotto la doccia. E la Tv 'spazzatura' c'è a sua volta, con l'assalto dei media all'uomo qualunque (Benigni, come detto) che diventa divo senza alcuna qualità.
Molte situazioni sono infine da 'commedia all'italiana' (Penelope Cruz splendida prostituta che ritrova tutti i suoi clienti a un raduno dell'alta società, per esempio), talora da pochade, talmente banali che costituiscono palesemente più un riferimento di Woody Allen a certo cinema di genere (un po' corrivo) che non alle sue situazioni comiche preferite, quelle raffinate e intelligenti che ce l'hanno fatto amare.

Difficile cogliere in tutto ciò qualcosa di più di quel che c'è, un divertito riferimento ai rapporti fra italiani e americani, ai diversi riferimenti culturali, al divertimento che mescolare le due culture e i rispettivi personaggi può procurare. Così anche il cast è misto, come abbiamo visto, e il risultato è interessante, anche se spiazzante: si va da Woody stesso con le sue nevrosi ormai un po' senili (il doppiatore è Leo Gullotta, che cerca di non far rimpiangere troppo Oreste Lionello) a Scamarcio, da Ellen Page a Ornella Muti.

Bisogna, in conclusione, non cercare per forza l'Allen di New York o di altre città, non pretendere la satira del costume italiano ma lasciarsi andare almeno a certe battute, che sono talora irresistibili. Eccone due (le riferiamo come le ricordiamo, magari in forma un po' approssimativa): in riferimento al tenore 'becchino' Woody Allen dice: 'Quello canta e suona la grancassa mentre mette il morto nella cassa'; oppure, il maldestro rapinatore in hotel Scamarcio irrompe nel pieno dell'adulterio dell'ingenua sposina di Pordenone con il divo del cinema e, fintosi a letto con lei per salvare l'attore dalla furia della moglie, ci prende gusto e proclama a discolpa: “L'occasione fa l'uomo ladro”.

Non sarà il più bel film di Allen, insomma, e lascia pure un po' sconcertati. Però è godibile e vederlo può anche essere per certi versi spassoso.

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