Recensione: ‘Truth – Il prezzo della verità’

 

La protagonista assoluta, nevrotica, appassionata e al contempo tutta dedita alla ‘giusta causa’ propria del suo mestiere, è Cate Blanchett, che offre naturalmente alla producer e giornalista televisiva americana Mary Mapes un’interpretazione di grande qualità, ma c’è un co-protagonista che compare di frequente sullo schermo quasi a mo’ di icona del giornalismo televisivo americano in quanto tale, ed è non a caso Robert Redford, che ricordavamo ancora, giovane e indomabile, nei panni di uno dei due coraggiosi reporter del ‘Washington Post’ in ‘Tutti gli uomini del presidente’, molti anni fa. Il tempo ha fatto il suo implacabile corso, naturalmente, e Redford, icona anche del cinema indipendente americano, è qui un po’ dolente, invecchiato, stanco, persino ‘solenne’ in alcuni momenti, nei panni di Dan Rather, che è stato per una vita l’emblema, a sua volta, del ‘grande giornalismo televisivo’ americano alla CBS. Un punto di riferimento per tanti giovani giornalisti (come si vede nel film dal panico che assale il giovane reporter che lo incontra in Tv), una garanzia di onestà intellettuale e di libertà per il pubblico, un uomo che era un po’ il simbolo di un mestiere svolto giorno per giorno - e di fronte a tutti - con professionalità e indipendenza. Insomma, qualcosa di paragonabile al nostro Enzo Biagi, per capirci.

La vicenda che ‘Truth’ (inutile, ci pare, l’aggiunta di ‘il prezzo’ nella versione italiana)  racconta, con tutti i dettagli e per la bellezza di due ore tonde, è quella del 2005, la cui eco giunse un po’ vagamente anche in Italia, che coinvolgeva un ulteriore emblema del migliore giornalismo televisivo americano, ovvero il settimanale di approfondimento di CBS News ‘Sixty minutes’. La citata producer news (figura che andrebbe magari spiegata in Italia, dove non esiste, o quasi, qualcosa di analogo) Mary Mapes lavora appunto lì e ha fatto carriera con determinazione e con totale dedizione alla ‘causa’; è lei a trovarsi in quel 2005 alle prese con la ‘notizia della vita’, ovvero le tracce del possibile inganno del presidente George W. Bush, che avrebbe mentito sul suo servizio militare giovanile nell’era del Vietnam e in sostanza sarebbe stato favorito da alti gradi dell’esercito per ‘cavarsela’, senza svolgere realmente la sua ‘missione’ alla Guardia Nazionale. Come noto, in America, ai presidenti non è consentito mentire, su nessun argomento.

Mary si rende conto che le prove che questi siano stati realmente i fatti sono un po’ deboli, ma poi si rianima quando un vecchio ex militare malato testimonia che le cose sarebbero andate proprio così, anche se chiede di restare il più possibile nell’ombra (cosa che non sarà poi possibile) ed è un po’ reticente sulla sua fonte (non era stato infatti diretto protagonista dei fatti). Inizia lì la sua lunga inchiesta sull’argomento e qui sembra di assistere, all’inizio del film, al bis di ‘Il caso Spotlight’: ci sono anche qui ricerche e indagini a tutto campo e grida di esultanza quando sembra che l’inchiesta centri il bersaglio. L’esito di tutta la vicenda sarà però ben diverso rispetto alla storia del ‘Boston Globe’.

Infatti, quando sembra che ci siano abbastanza prove, si decide, sul filo delle ore (non poteva non esserci un po’ di suspence, siamo nel cinema americano, ovviamente) e per via di una serie di problemi legati al palinsesto della CBS, di andare subito in onda, affidando naturalmente la conduzione della serata e delle interviste a Dan Rather, che viene messo a parte dell’inchiesta e delle sue conclusioni e non esita a presentare il tutto.

Ma la decisione si rivela improvvida: poco dopo la trasmissione, cominciano le prese di distanza e le precisazioni, mentre l’establishment si difende strenuamente. Si sviluppa anche un’ostilità personale verso Mary che rischia di compromettere persino la sua vita familiare e i già difficili rapporti con il padre. La CBS pian piano prende le distanze e i giornalisti di ‘Sixty minutes’ cominciano a temere che possa andarci di mezzo lo stesso Rather, che tutti vorrebbero tener fuori dalla questione.

Poi la situazione precipita: la CBS nomina una commissione che mette sotto inchiesta la producer e la sua équipe, Rather viene costretto a porgere le scuse in Tv per il servizio messo in onda, l’esito finale si comincia a intuire.

Infatti va a finire che Mary viene licenziata e lo stesso Rather chiude con le dimissioni il suo ciclo alla CBS, con un commosso addio al pubblico in cui rivendica però la sua integrità e i tanti anni di onesto lavoro giornalistico. Rather esce di scena fra gli applausi e la commozione dei dipendenti CBS, ma si capisce che con lui finisce anche un’epoca e che in Tv e nel mondo dell’informazione niente sarà più uguale a prima, anche perché i tempi stanno proprio cambiando, in tutti i sensi.

Il film di James Vanderbilt, regista nuovo per il genere ‘impegnato’, ha un piglio ‘militante’, prendendo naturalmente le parti di Mary (che non ha più fatto la giornalista Tv dopo il 2005), pur senza nascondere che in quella inchiesta non mancavano magari alcune pecche che ne inficiavano l’efficacia e la ‘certezza’ dal punto di vista deontologico, con l’attenuante però che il sistema aveva fatto un ‘muro di gomma’ tale da annullarne la forza dirompente.

La pellicola alterna peraltro il racconto diligente dei fatti a toni da lungometraggio ‘epico’; ci sono poi alcune sequenze che sono tipiche del genere ‘processuale’, quando Mary è alle prese assieme al suo legale con la commissione, e qui viene quasi da aspettare Perry Mason che chiarisca per benino i fatti e rimetta le cose a posto. Alla fine, quando Rather saluta per l’ultima volta il suo pubblico, prevale invece un tono di grande commozione, perché qui, al contrario di ‘Spotlight’, “non vincono i nostri”.

Il film, nel complesso, è ben fatto e rigoroso nel racconto dei fatti, anche se può non sembrare magari un capolavoro, anche per lo svolgimento un po’ discontinuo. Però ci sono molte riflessioni davvero interessanti sul mondo del giornalismo e della Tv in America, ci sono diversi momenti in cui ci si trova a ragionare con i protagonisti su quella professione e sul mondo dell’informazione, ad esempio quando Rather rievoca la nascita di ‘Sixty minutes’ come primo programma di una Tv commerciale che attraeva anche pubblicità.

Alla fine, poi, anche Rather-Redford non si sottrae alla solita fatidica domanda: ‘Ma perché hai scelto di fare il giornalista?’. No, non risponde, banalmente, ‘perché è sempre meglio che lavorare’, ma con una sola battuta, che sottoscrivo in pieno: ‘Perché ero curioso, curioso e basta’.

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