La Rai celebra se stessa e racconta con questa fiction una parte importante della sua storia, quella che poi resta nella memoria come, forse, la più ‘gloriosa’, l’epoca del grande varietà del sabato sera degli anni ’60 targato Antonello Falqui e Guido Sacerdote, entrati ormai nel mito come ‘perfetti costruttori’ di un prodotto di intrattenimento di qualità, con i personaggi e i tecnici più bravi impegnati nel realizzare uno show ‘esemplare’, frutto di grande studio, di tante prove, di una costante ricerca del ‘meglio’ da mostrare al pubblico.
Fin qui tutto bene, ma così era ‘troppo facile’ e allora qualcuno deve aver pensato che quella storia, già di per sé ricca e interessante, andasse anche raccontata in un modo ‘edificante’, mettendoci accanto storie d’amore e romanticismo a gogò, tanta poesia, una bella dose di generica nostalgia e una fotografia dai colori fasulli ma tanto belli da vedere; insomma, qui non si fa storia e tantomeno storia della Tv ma si racconta quasi una favoletta, solo ispirata alla realtà televisiva di oltre cinquant’anni fa.
Se il calcolo era poi quello di ottenere il massimo di audience, tanto di cappello, perché ieri sera, lunedì 13 febbraio, la prima puntata di ‘C’era una volta Studio Uno’, in perfetta collocazione post-Sanremo, ha ottenuto la bellezza di 6,7 milioni di spettatori e il 25,68% di share, riuscendo nell’impresa di battere nettamente ‘L’Isola dei famosi’ di Canale 5, che si è dovuta accontentare di 3,580 milioni di spettatori e del 18,42% di share.
Se invece l’intento era anche quello di raccontare quella Tv ‘eroica’ ai giovani che non c’erano o a chi ne ha solo un vago ricordo infantile, diremmo che proprio non ci siamo. Tutto è raccontato infatti con gli occhiali non tanto e non solo della totale nostalgia ma anche con quelli del puro ‘mito’, appunto, della generica poesia, con una melassa di fondo che rende i personaggi poco credibili, le situazioni improbabili, la pur attenta ricostruzione storica una fatica alla fine sprecata.
Già l’idea di non raccontare proprio la vicenda di ‘Studio Uno’ ma invece tre storie inventate di tre ragazze che si ritrovano a vivere e lavorare nella nuova Rai di via Teulada all’epoca di ‘Studio Uno’ (vi viene in mente ‘Le ragazze di piazza di Spagna’, che poi era anche meno mieloso? Ecco, appunto…) sembrava una ‘trovata’ magari felice per gli ascolti ma proprio fuori luogo per parlare della storia italiana dei decenni passati e di storia della Televisione. Fatti tutti gli enormi ‘distinguo’ del caso, non era poi qualcosa di tanto diverso dalla scelta fatta da Sky (che personalmente mi parve decisamente infelice) per ‘1992’: fatti veri, personaggi reali, ambizione di raccontare in qualche modo la storia italiana ma con vicende e vite fasulle, inventate, che andassero in parallelo con quelle effettive di quegli anni.
Ben altro era stato l’esito nel caso del ‘Modugno’ di Beppe Fiorello, dove le vicende erano reali, la sceneggiatura adeguata, l’attore protagonista di classe assoluta, i colori quelli veri della passione, del nostro Sud, del Mediterraneo.
Il guaio è poi, infatti, che la produzione Lux Vide (c’erano alternative? Chissà…) ha calcato la mano sul piano del romanticismo. E allora, visto che siamo anche con la messa in onda dalle parti di San Valentino, vai con le storie d’amore tormentate, le promesse spose che, deboli, si perdono dietro all’affascinante gaglioffo di turno, le spregiudicate arriviste che però si pentono e rivelano volontà di ferro e alla fine anche cuor d’oro e - pensate un po’ - c’è anche la ragazza madre, che nasconde il figlio della colpa e cerca a suo modo la redenzione. Sono ingredienti da fotoromanzo, quel fotoromanzo che ai tempi vendeva tantissimo e alla fine verso quell’esito si va a parare: quando viene il momento dei baci appassionati, sembra proprio di rivedere, stavolta a colori, quella formula, quei volti, quelle storie scontate.
Se invece si cerca di conoscere che cos’era la Rai a quei tempi, se ne ha un’idea sì, perché si vedono continuamente telecamere, regie, tecnici e registi, cantanti, ballerini e gli immancabili funzionari, ma anche qui la realtà forse era un po’ diversa. I cattivi ci sono (i famosi funzionari che ‘ci provano’ con la aspirante star di turno) e Falqui è spesso all’opera, sempre con la sua sigaretta in bocca, ma tutto è un po’ fiabesco, come se di quelle storie si volesse raccontare quasi solo la parte ‘migliore’, senza la pretesa insomma di ‘fare sul serio’.
La politica, per dire, che in Rai non è e non era ovviamente tutto ma molto sì, di sicuro, non compare quasi mai, il massimo di cattiveria espresso dai personaggi è far comparire qualche raccomandato di ferro, qualche funzionario non proprio irreprensibile.
In un simile contesto, anche la narrazione delle storie interne alla stessa Rai è quella che è: il dirigente conservatore Mariotti e i suoi amici sono sì cattivissimi e tutti tesi a fermare la ‘nuova Tv che avanza’ ma sostanzialmente imbelli e si fanno persino prendere per il naso da un furbissimo Falqui, che si mette d’accordo con il giovane direttore generale e anticipa la messa in onda di ‘Studio Uno’, rendendo inutile l’opposizione di questi ottusi ‘tradizionalisti’.
Stentiamo a credere che le cose siano andate proprio così in quel 1961 dove la storia di ‘C’era un volta Studio Uno’ inizia e che poi il titolo della fiction abbia il classico ‘incipit’ delle fiabe sembra già indicativo dell’approccio. Ma c’è una cosa in più da sottolineare: quel giovane e ‘spregiudicato’ (va beh…) direttore generale era proprio lui, Ettore Bernabei, che regnò sulla Rai dal 1961 al 1974, furbo, intelligente, capace ma magari non esattamente ‘rivoluzionario’ come qui lo si fa sembrare. Anche perché a produrre la mini-serie è proprio la Lux Vide della famiglia Bernabei e allora vogliamo chiamare il tutto ‘conflitto d’interessi’? Magari sì, vedete voi.
E poi Celentano, Rita Pavone, il vinile, i rotocalchi d’epoca e i 45 giri, il Servizio Opinioni, il ballo del mattone e Don Lurio, le Kessler, il maestro Canfora, le annunciatrici, il costumista Folco e tanti bravi tecnici Rai. Alle volte si alterna il bianco e nero d’epoca con i colori sgargianti scelti per questa fiction e l’effetto può magari anche piacere, anche se personalmente l’ho trovato persino irritante.
Ma soprattutto c’è lei, sua maestà Mina, simbolo di quel mondo e di quello spettacolo di alta classe, che nella prima puntata abbiamo visto solo o in immagini d’epoca o di spalle; oggi apparirà davvero - pare - e vedremo come verrà rappresentata e se magari lei stessa gradirà, se per caso vorrà farcelo sapere.
Pare invece che proprio Falqui abbia detto che “gli intrecci d’amore non c’entrano niente con la storia di quel varietà”. Ecco, appunto, ma forse la storia vera era anche un po’ più complessa e assai meno poetica.